Il Sole 24 Ore. Il cantiere delle pensioni non potrà rimanere per troppo tempo inattivo. A farlo notare sono stati subito i sindacati nella prima presa di contatto con il nuovo ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Ma lo stesso governo ne è consapevole. Del resto, il “count down” che porta all’esaurimento della sperimentazione triennale di Quota 100 è già cominciato. E lo scalone che si profila tra le fine del 2021 e l’inizio del 2022 è un ostacolo su cui Mario Draghi sicuramente non correrà il rischio di inciampare. Anche perché a sollecitare un sistema previdenziale solido e sostenibile è la stessa Europa, alla quale guarderà come una stella polare per tutto il mandato il premier. Che dovrà però anche fare i conti con le diverse scuole di pensiero che si annidano sulla materia all’interno della sua vasta maggioranza. A cominciare da quella della Lega, che ha fortemente voluto le nuove pensioni anticipate con 62 anni d’età e 38 di contribuzione.
La rotta dell’ormai inevitabile nuovo intervento sulle pensioni sarà tracciata nelle prossime settimane. Ma due coordinate sono già certe: il secco stop a qualsiasi tentazione di mini-proroga di “Quota 100” e il contributivo, nella sua accezione più vasta, come solco su cui incanalare le misure in arrivo. Le nuove soluzioni di flessibiità sostenibile in uscita potrebbero essere adottate con una correzione attuariale degli anni di versamento precedenti al 1996, anno del via alla riforma Dini, ricorrendo a un ricalcolo basato sul rapporto tra il coefficienti di trasformazione del montante contributivo in pensione dei 67 anni con il coefficiente dell’età di uscita (per esempio 63 o 64). Un’opzione che, se adottata, potrebbe portare con sé un aggiornamento dei coefficienti e un ripensamento anche dell’attuale schema di indicizzazione delle pensioni, che è pure in scadenza. La riforma, se arriverà, dovrebbe poi portare una prima risposta all’esigenza di una pensione di garanzia per i lavoratori con carriere contributive troppo deboli, e un ampio aggiornamento delle regole che governano la previdenza complementare, a partire dalle fiscalità di svantaggio attuali.
I ministri del Lavoro Orlando e dell’Economia, Daniele Franco, dovranno ripartire dai dossier abbozzati nei mesi scorsi dal ”Conte 2” a margine della prima fase di confronto con i sindacati sulla possibile riforma pensionistica. A gennaio si è anche riunita la Commissione di tecnici insediata dall’ex ministro Catalfo, che ovviamente non ha potuto fornire un ventaglio ampio di integrazioni alle proposte fini qui ipotizzate. Prima fra tutte quella di un nuovo sistema flessibile da costruire attorno a una soglia di ingresso fissata a 63, o 64 anni d’età e almeno 38 anni di contribuzione, prevedendo appunto una correzione attuariale rispetto al limite di vecchiaia dei 67 anni, ma anche con la possibilità di requisiti meno ”penalizzanti” per le categoria di lavoratori impegnate in attività particolarmente gravose. Un’opzione che non piaceva troppo ai sindacati, ancora in pressing per spuntare una flessibilità ancorata al requisito minimo dei 62 anni d’età e con la garanzia del pensionamento una volta raggiunti i 41 (o 42) anni di versamenti contributivi. Uno schema che appare non troppo in linea con le idee del nuovo governo. La necessità di assicurare una sostenibilità in via strutturale al sistema previdenziale potrebbe indurre l’esecutivo a non discostarsi troppo dal sentiero della legge Fornero. Anche per questo motivo, a livello ministeriale, a giocare la partita con tutta probabilità non sarà solo il ministero del Lavoro ma anche quello dell’Economia. Daniele Franco, oltretutto, è un profondo conoscitore dell’impalcatura previdenziale. Non a caso, nei vari incarichi ricoperti, è già stato più volte protagonista delle partite pensionistiche che hanno portato agli interventi varati negli ultimi 15 anni.