Ma anche se l’architettura del nuovo dispositivo di uscite dovrà essere disegnato il prossimo anno, come assicurato dal governo nel Programma nazionale di riforma (Pnr) inviato a Bruxelles, già da alcune settimane sono in corso valutazioni su alcune ipotesi per rendere meno rigido, e comunque sostenibile, il sistema pensionistico. E nel ventaglio di opzioni già sul tavolo c’è anche quella della “doppia flessibilità in uscita”. Che prevede anzitutto la possibilità di consentire ad una prima fetta di categorie di lavoratori, a cominciare da quelli che svolgono attività gravose o comunque usuranti, di andare in pensione già a 62 (o 63) anni con un’anzianità contributiva di 36 (o 37) anni senza eccessive penalizzazioni e con la possibilità di sfruttare il canale alternativo dell’Ape sociale in versione potenziata e strutturale. Per tutti gli altri lavoratori la soglia minima di uscita, sempre in chiave flessibile, salirebbe a 64 anni d’età (e comunque a non meno di 63 anni) e almeno 37 (o 38) anni di contribuzione e con penalità legate al metodo di calcolo contributivo di una certa consistenza per ogni anno d’anticipo rispetto al limite di vecchiaia dei 67 anni.
Si tratta di un’ipotesi che potrebbe essere valutata con attenzione nelle prossime settimane insieme a tre o quattro alternative già circolate negli ultimi mesi. E che non sarebbe del tutto sgradita ai sindacati per i quali, comunque, la priorità resta l’uscita garantita per tutti (a partire dai cosiddetti “precoci”) alla maturazione dei 41 anni di contribuzione. Un’indicazione chiara non dovrebbe in ogni caso arrivare dal round di venerdì, che dovrebbe avere la funzione di un primo giro d’orizzonte sul “post-quota 100”.
Nei prossimi giorni scatteranno anche i 4 tavoli tecnici individuati nell’ultimo incontro tra governo e Cgil, Cisl e Uil per definire il pacchetto di misure da inserire nella manovra autunnale. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha dato la disponibilità a lavorare soprattutto su tre interventi: proroga e rafforzamento di Ape sociale, prolungamento di Opzione donna e quota 41 per i lavoratori precoci.
Ma su questo pacchetto, che, a seconda della configurazione, potrebbe valere anche più di 500 milioni, il ministero dell’Economia si mostra per il momento molto cauto. L’impossibilità di ricorrere a nuovo deficit per la legge di bilancio e la necessità di dare la precedenza all’avvio della riforma fiscale e alla nascita dell’assegno unico per la famiglia non lasciano molto a spazio ad altre misure di spesa. E a rischiare sarebbe soprattutto la possibilità di uscita con 41 anni di contributi per chi ha cominciato a lavorare in giovane età.
Tra i nodi da sciogliere del capitolo pensioni da collocare nella prossima manovra c’è anche quello della previdenza complementare, al quale sarà dedicato uno dei tavoli tecnici. I sindacati, come ribadisce Domenico Proietti (Uil), puntano sul ricorso per tutti a un nuovo semestre di silenzio-assenso per la scelta del Tfr per rilanciare le adesioni ai fondi pensione, magari grazie anche alla nascita di un meccanismo ad hoc, imperniato su un fondo di garanzia, per i dipendenti del piccole e piccolissime imprese. Ma anche in questo caso bisogna fare i conti con il ministero dell’Economia e soprattutto con la giacenza del fondo di tesoreria dove confluiscono le quote di Tfr maturate e non destinate alla previdenza integrativa.