di Davide Colombo. Quanto ne sappiamo davvero del valore della nostra pensione futura? Oppure dell’età in cui andremo in pensione? Il giorno del debutto del simulatore ufficiale Inps offre un’occasione unica per cercar risposte a queste domande e le più interessanti che abbiamo trovato escono da uno studio appena presentato all’Università di Modena da Carlo Mazzaferro, Massimo Baldini e Paolo Onofri (“Pension expectation and reality. What do italian workers know about their future pubblici pensione benefits?”).
L’indagine mostra come sono cambiate le percezioni sul valore della pensione futura e sull’età di ritiro negli ultimi dodici anni basandosi sulle risposte raccolte dal campione utilizzato dalla Banca d’Italia nella survey biennale sui redditi delle famiglie (si tratta di 8mila famiglie e 22mila individui sondati). Sui due quesiti il campione si muove con una discreta approssimazione: tra il 2000 e il 2012 riduce del 10,3% la sua aspettativa sul “replacement rate”, ovvero il tasso di sostituzione tra pensione e stipendio, spostandolo da un ottimistico 72,5% a un più modesto 62,3%. Pensioni, lo studio dell’Università di Modena
Mentre sull’età attesa di ritiro si passa dai 61,6 anni ai 65,1, 3,5 anni in più, con un salto di oltre un anno e mezzo tra il 2010 e il 2012, il periodo bollente in cui sono state introdotte e poi cancellate le finestre mobili, è entrato a regime il meccanismo di aggancio dell’età di ritiro all’aspettativa di vita e sono stati innalzati i requisiti di vecchiaia e anticipo pensionistico con la riforma Fornero.
In diverse tavole vengono poi fotografati gli scarti tra percezione e realtà. Se nel 2000 il tasso di sostituzione atteso era del 72,5%, rispetto a un tasso di sostituzione reale (ovvero determinato dalle norme sulla base dell’età di pensionamento) del 62,8%, dodici anni dopo l’errore del campione si riduce: l’attesa scende al 62,3% contro un tasso di sostituzione effettivo del 62,7%. Obiettivo quasi centrato: si è passati da un eccessivo ottimismo sul peso del primo assegno previdenziale rispetto all’ultimo stipendio per poi cadere in una piccola sottovalutazione.
Gli studiosi hanno anche quantificato in termini monetari l’errore degli italiani nella stima della loro pensione. Ecco qualche esempio: i lavoratori dipendenti sono passati da una sovrastima dell’assegno di 2.430 euro (sul reddito annuo da pensione) nell’anno 2000 a una sottostima di 1.957 euro nel 2012. Nello stesso periodo i dipendenti pubblici hanno dormito sonni più tranquilli: sono passati da una sovrastima di 5.816 euro annui a una sovrastima di 1.161 euro del 2012. E ancora, le donne nel periodo in questione sono state molto più pessimiste degli uomini: passano da una sovrastima della pensione annua di 3.084 euro del 2000 (3.427 i maschi) per cadere in una sottostima rispetto al valore reale della pensione del 2012 di 855 euro (mentre gli uomini sovrastimano ancora, con un errore di 1.072 euro).
Un’ultima tabella dello studio racconta infine in termini percentuali gli errori di valutazione: se tra il 2000 e il 2010 la risposta sull’età di pensionamento era sbagliata tra il 20 e l’11% dei casi, nel biennio successivo si sale a errori tra il 43 e il 63,5% dei casi. E un vero crollo di fiducia si intercetta nelle ipotesi sul peso della pensione: se le sovrastime restano attorno al 60% fino al 2010, nei due anni che seguono si scende al 48,3%: i pessimisti battono sia pur di poco gli ottimisti quando i governi della Grande Crisi mettono ripetutamente mano alle regole previdenziali. Una lezione per il legislatore futuro?
Il Sole 24 Ore – 30 aprile 2015