La pensione di cittadinanza «costerebbe troppo, sarebbe pagata dalle giovani generazioni e spaccherebbe lo Stato sociale». Alberto Brambilla, esperto della Lega per la previdenza e l’assistenza (è stato sottosegretario al Lavoro con Maroni e poi presidente del Nucleo di valutazione della spesa pensionistica presso lo stesso ministero), boccia la proposta cara al Movimento 5 Stelle di dare una pensione minima di 780 euro a tutti i pensionati che non arrivano a questo reddito mensile. Nonostante il vicepremier Luigi Di Maio liquidi le sue parole come pronunciate «a titolo personale», Brambilla è in realtà impegnato nelle riunioni dei tecnici della Lega per mettere a punto le proposte per la manovra finanziaria. In particolare «quota 100» (somma di età e contributi) per anticipare l’accesso alla pensione: «Questa è sì una proposta gestibile, perché quota 100 si potrebbe in futuro sempre alzare in funzione della speranza di vita, mentre se si introducesse la pensione minima di 780 euro, sarebbe difficile rimediare i guasti che ne deriverebbero». Certo, ammette lo stesso Brambilla con un sorriso: «Se continuo a dire queste cose, tra un po’ non mi inviteranno più neppure alle riunioni della Lega», ma poi subito cerca alcune tabelle e riprende: «Sulla pensione di cittadinanza dobbiamo partire dai numeri».
Quali?
«Primo: a chi vogliamo darla questa pensione? Agli invalidi civili? Bene, sono quasi un milione. E per coprire la differenza tra quanto prendono ora (282 euro al mese per tredici mensilità, ndr.) e i 780 euro bisognerebbe spendere circa 6,3 miliardi in più all’anno. Vogliamo darla a chi prende l’assegno o la pensione sociale(453 euro al mese, ndr.)? Sono altre 860 mila persone e in questo caso bisognerebbe sborsare altri 4 miliardi. Ci riferiamo invece ai 3,2 milioni di pensioni integrate al minimo (502 euro al mese, ndr.) o alle oltre 900mila pensioni con la maggiorazione sociale? Servirebbero altri miliardi ancora. Non ci sono le risorse. E si tratterebbe di un’operazione ingiusta».
Perché?
«Perché qui parliamo di pensioni per le quali non sono stati pagati contributi sufficienti o non ne sono stati pagati affatto. Su 16 milioni di pensionati oggi in Italia, più della metà sono a parziale o a totale carico dello Stato. Le pensioni minime, sono prestazioni dove il titolare, in tutta la sua vita lavorativa, non è riuscito a pagare i contributi per almeno 15 anni, il che fa scattare appunto l’integrazione al minimo. Solo considerando queste pensioni e quelle con l’aggiunta delle maggiorazioni sociali, si tratta di 4 milioni di assegni. Altri 4 milioni sono invece le prestazioni totalmente assistenziali, per le quali cioè non è stato versato neppure un euro di contributi: le pensioni d’invalidità e quelle sociali, appunto. Portare tutto a 780 euro significa caricare la spesa sulle giovani generazioni che, tra l’altro, spesso non arrivano loro a guadagnare questa cifra pur lavorando. Mi riferisco, per esempio, a tutti i giovani della gig economy. Ma poi rischierebbe di saltare il sistema a ripartizione».
Quello in base al quale le pensioni agli anziani si pagano con i contributi di chi ancora lavora?
«Esatto. Prenda un commerciante o un artigiano. Con un reddito medio di 1.350 euro al mese, per maturare una pensione di 780 euro, deve lavorare e pagare contributi per 38-40 anni. Chi glielo fa fare di continuare a versare all’Inps se il governo comunque gli garantisce 780 euro?».
Di Maio dice che la pensione di cittadinanza andrebbe solo ai pensionati poveri, a coloro cioè che non arrivano a 780 euro.
«Bisogna appunto vedere come viene selezionata la platea. L’Isee, l’indicatore di ricchezza familiare è ancora molto lasco. Bisognerebbe fare come in Germania o in Svizzera dove, se un soggetto ha più di 33-34 anni e non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi, lo chiamano per chiedergli di cosa vive e le garantisco che, se non ha argomenti validi, rischia di finire nelle patrie galere per evasione fiscale».
corsera