Dal superamento della riforma Fornero, annunciata dal centrodestra, al gradualismo più o meno spinto a sinistra per migliorare gli attuali schemi di flessibilità in uscita e dare garanzie di adeguatezza alle future pensioni dei giovani che oggi sono sul mercato del lavoro con carriere incerte. Anche per la campagna elettorale per la 18esima legislatura le proposte sulla previdenza si preannunciano molto polarizzate, con un’attenzione convergente sulla necessità di rafforzare anche il potere di acquisto di chi in pensione c’è già me deve tirare avanti con un assegno basso.
In attesa dei programmi ufficiali con costi e coperture delle misure, il primo confronto serrato è proprio su quello che dovrebbe essere il trattamento minimo negli anni a venire. Forza Italia vorrebbe innalzare le pensioni minime da 631,87 euro al mese a mille euro (per 13 mensilità) a una platea di pensionati che rispetti i requisiti del 2001, quando le pensioni minime furono portate dal governo Berlusconi da 500mila lire a un milione. Allora il provvedimento interessò 1.835.000 pensionati, questa volta ne beneficerebbero in 842.551 per un costo annunciato di poco superiore ai 4 miliardi. Cifra molto lontana da quanto servirebbe invece per portare a mille euro tutte le pensioni (6,2 milioni) sotto quella soglia. Ma la proposta di Fi si accompagna all’annunciata volontà di cancellare la riforma del 2011 per tornare alle leggi Dini e Maroni. È questo il terreno sul quale si cementa il tandem con il partito di Salvini: l’ipotesi di partenza è il ritorno al sistema delle quote (a 100 tra contributi più età anagrafica) che per l’uscita con 41 anni di versamenti sarebbe sostenibile, secondo il parlamentare della Lega, Massimiliano Fedriga, con 4 o 5 miliardi di maggior spesa nei primi 10 anni. Cifra da confermare nei dettagli ma la Lega più che di costi parla di investimento: maggiori uscite dal mercato del lavoro dei senior dischiuderebbero, a loro dire, spazi per l’occupazione di giovani precari. E punta su una separazione tra spesa previdenziale e assistenziale. Mentre sul fronte della flessibilità si propone un decreto per dare una salvaguardia a qualche migliaio di esodati esclusi dall’ottava.
Lo schema M5S, anticipato al Sole 24Ore dalla parlamentare Nunzia Catalfo, parte da una soglia minima di 780 euro per le future pensioni contributive e un tetto di 5mila euro netti sulle pensioni vigenti, un taglio sulla parte retributiva degli assegni per trovare parte delle risorse da redistribuire a favore di chi oggi ha un assegno troppo basso. Ma M5S annuncia anche l’abolizione dell’adeguamento automatico dei requisiti di pensionamento all’aspettativa di vita e una staffetta generazionale basata sul part time agevolato negli ultimi tre anni di impiego.
Il Pd si muoverà in continuità con il “pacchetto previdenza” varato dal Governo Renzi con l’obiettivo di introdurre una garanzia minima (attorno a 650 euro) alle future pensioni contributive dei giovani cui si aggiungerebbe un addendum per ogni anno di lavoro dopo il ventesimo, mentre per le basse pensioni attuali si stanno studiando misure per un adeguamento a 7-800 euro netti. A sinistra i Dem si troveranno non lontanissimi dalle proposte di Liberi e Uguali, che pure puntano su una garanzia di adeguatezza per le pensioni contributive future partendo da un’ipotesi di contribuzione figurativa sugli anni di disoccupazione involontaria. Per Leu, infine, va esteso il principio secondo cui a mansioni diverse devono corrispondere schemi diversi di adeguamento dei requisiti alla speranza di vita, mentre il Pd aspetterà invece l’esito dei lavori della commissione tecnica che verrà istituita sul tema.
Il Sole 24 Ore – 9 gennaio 2018