Azzerare l’effetto svalutazione delle pensioni causato dall’andamento negativo del Pil. È questo l’orientamento dell’Inps che, con una lettera che sarà inviata con ogni probabilità oggi ai ministeri del Lavoro e dell’Economia, chiede un chiarimento sull’applicazione del meccanismo di calcolo introdotto nel 1995 dalla riforma Dini. Il montante contributivo di ogni pensione, infatti, viene annualmente rivalutato in base all’andamento del Pil nominale (serie storica di 5 anni). Tuttavia essendo il coefficiente negativo (-0,1927%), il “salvadanaio previdenziale” di tutti i pensionandi, dal prossimo anno, subirebbe una perdita se venisse applicato in modo automatico il meccanismo, messo a punto in anni in cui era quasi impensabile ipotizzare un calo del Pil così prolungato nel tempo. In mancanza di correttivi i lavoratori subirebbero un taglio su quanto accumulato, con riflessi sui trattamenti futuri
Il ragionamento che fanno all’Inps è che trattandosi di un meccanismo di rivalutazione del contributo e non di svalutazione, non ci possa essere una penalizzazione per i futuri pensionati. Questa interpretazione sarebbe quasi scontata, secondo l’Istituto nazionale di previdenza, che tuttavia in presenza di rumors relativi alle preoccupazioni per possibili problemi di copertura, ha deciso di inviare una lettera per chiedere lumi ai due ministeri.
Aperture arrivano dal viceministro dell’Economia, Enrico Morando: «Siamo immersi in una lunga fase di recessione – afferma –, è chiaro che sarebbe semplicistico limitarsi a un’applicazione automatica del meccanismo. È ragionevole intervenire per impedire la svalutazione delle pensioni, cambiando le regole del gioco. Va posto il problema, ricordando che serve una grande cautela quando si interviene sulle materie previdenziali, serve un atteggiamento volto a garantire stabilità nei conti, senza produrre terremoti». Per Morando il problema non è il meccanismo: «In Svezia esiste un meccanismo analogo ma il problema non si pone perché non si è mai verificata una caduta economica simile alla nostra – aggiunge –. È il Pil negativo che produce conseguenze negative sul sistema previdenziale. In questo quadro occorre azzerare l’impatto con un provvedimento legislativo. Non è accettabile una svalutazione, ma neanche si può pretendere una rivalutazione se il Pil è negativo». Aperture anche dal sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta: «Va riaperta la discussione tecnica sui coefficienti alla luce dei cambiamenti avvenuti nel sistema previdenziale – afferma –, nel frattempo va neutralizzato ogni effetto negativo sulle future pensioni dovuto al periodo di recessione. Non va dimenticato che il sistema contributivo si basa su un pilastro: la pensione deve corrispondere a quello che ciascuno ha versato». Un intervento per «sterilizzare l’impatto negativo del Pil sulle pensioni» è ritenuto «indispensabile» dal presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, che ha presentato una proposta di legge con Maria Luisa Gnecchi (Pd): in situazioni di Pil negativo per due annualità consecutive il Governo dovrebbe essere autorizzato a utilizzare come calcolo dell’indice di rivalutazione, al posto del quinquennio che precede l’anno di riferimento, il quinquennio antecedente le annualità di decrescita del Pil.
C’è infine un problema Casse: la serie storica del Pil va infatti applicata anche agli enti di previdenza dei professionisti (2 milioni di iscritti). Una piccola categoria si è ribellata (gli agrotecnici) e l’ha avuta vinta il 18 luglio davanti al Consiglio di Stato: ora potrà applicare un tasso di rendimento minimo dell’1,5% nonostante il diniego di ministeri del Lavoro ed Economia. Che dovranno esprimersi sulla medesima richiesta avanzata da consulenti del lavoro (Enpacl) e ingegneri (Inarcassa). Altre due categorie ci stanno pensando: psicologi (Enpap) e periti industriali (Eppi). «Se una Cassa ha i conti in ordine e la sostenibilità a 50 anni, perché non può garantire una rivalutazione alle pensioni dei propri iscritti? – chiede Valerio Bignami, presidente Eppi –. Noi ci troviamo in questa situazione e stiamo valutando un indice alternativo alla serie storica del Pil. Avanzeremo pure noi la richiesta come hanno fatto consulenti del lavoro e ingegneri. In caso di diniego c’è sempre il precedente degli agrotecnici».
L’andamento del Pil negli ultimi 15 anni (in miliardi di euro), le differenze percentuali anno su anno e il coefficiente di rivalutazione nello stesso arco temporale Il Prodotto rappresenta il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un Paese in un certo intervallo di tempo, generalmente l’anno. Il Pil può essere anche definito come il valore della ricchezza di un Paese. Qui a destra è indicato il valore in termini assoluti. Nella riforma Dini del 1995 non era stata prevista una serie negativa del Pil come quella che si è realizzata dal 2009 a oggi La differenza percentuale del Pil, anno su anno, è la variazione della ricchezza di un Paese a distanza di dodici mesi calcolata in percentuale. Il tasso annuo di capitalizzazione per la rivalutazione dei montanti contributivi fa appunto riferimento a questa variazione. In particolare la riforma Dini del 1995 ha fatto riferimento, per la rivalutazione delle pensioni, alla La serie rappresentata nel grafico evidenzia il valore dei montanti rivalutati: come si può vedere nel 2014 la dote accumulata dai lavoratori subirà un taglio, per l’applicazione del tasso di rivalutazione di -0,1927 per cento. I coefficienti sono correlati all’andamento quinquennale del Pil: nel 2014 ha contato soprattutto la brusca caduta che si è registrata nel 2009
Assegni 2014 senza indice negativo
La remunerazione sui montanti si applica sulla dote valorizzata con il calcolo contributivo delle prestazioni
In attesa che il Governo decida se neutralizzare l’impatto che avrebbe un indice del prodotto interno lordo nominale negativo sul montante accumulato, cresce la preoccupazione nei futuri pensionati.
Per una volta a pagare non sarà chi già è pensionato poiché le rivalutazioni dei montanti vengono cristallizzate al momento del pensionamento risultando del tutto ininfluente l’andamento dell’indice nelle annualità successive alla pensione. Tuttavia non bisogna dimenticarsi che i pensionati hanno “già pagato” con lo stop all’indicizzazione al costo delle vita nel biennio 2012/2013 – che solo nel 2014 è stato in parte sbloccata – nonché dalla mancata attribuzione del bonus “80 euro”.
La svalutazione del montante, qualora non si dovesse (o volesse) trovare una soluzione in considerazione dei costi di difficile copertura, riguarda i contributi che devono essere “valorizzati” con il sistema contributivo e solo i lavoratori che saranno attivi il 1?gennaio 2015.
In altri termini chi cesserà l’attività entro la fine di quest’anno non sarà interessato dalla penalizzazione sul montante accumulato. Questo perché la riforma del 1995 (legge Dini) ha previsto che nell’anno di cessazione la rivalutazione dei montanti sia per definizione pari a 1 e quindi l’accumulo di contributi versati nell’ultimo anno di lavoro, dato dalla somma dei contributi del lavoratore e di quelli del datore di lavoro, non subisce né rivalutazioni né svalutazioni.
L’Istat, nelle scorse settimane, ha certificato il valore negativo, che è stato “recepito” nel decreto del ministero del Lavoro. Già lo scorso anno l’indice era prossimo allo zero (0,1643 percento) ma l’emergenza non era stata percepita come tale. Anche il futuro non promette nulla di buono, considerato che il momento di crisi sembra perdurare. L’indice si è quasi dimezzato tra il 2009 e il 2010 passando da 3,3201 a 1,7935 per cento.
L’indice altro non è che una “fotografia” della variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (Pil) nominale, calcolato appositamente dall’Istat, con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare. L’indice negativo (-0,1927 per cento) dovrebbe appplicarsi, nel 2015, sulle quote dei contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore (cosiddetto montante) versati al 31 dicembre 2013. Per i lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 1995, la perdita sarà contenuta, poiché il sistema di calcolo contributivo si applica pro rata solo dal 2012. Invece, l’indice negativo è destinato ad avere un’incidenza maggiore per chi si ritrova la pensione calcolata, in tutto o in larga parte, con il contributivo.
In realtà, tra i lavoratori che sono passati al calcolo contributivo dal 2012, alcuni – con retribuzioni molto elevate – sono destinati a percepire assegni più elevati, poiché cumulano i benefici di una larga quota della pensione calcolata con il retributivo e una “particolare” agevolazione connessa con il contributivo che non è soggetto a un limite sui contributi.
In questo modo, la quota contributiva accresce la pensione già caratterizzata da un alto tasso di sostituzione grazie al retributivo. Forse, “neutralizzando” queste situazioni potrebbe essere trovata la copertura per evitare la rivalutazione negativa che inciderà sulla generalità dei lavoratori.
Sistema alle corde se non si cresce
di Claudio Pinna. Venticinque anni di riforme non sono bastati a garantire una struttura equa, stabile e sostenibile socialmente
Nel corso degli ultimi 25 anni in media ogni due o tre abbiamo avuto una revisione più o meno importante al sistema pensionistico italiano. Purtroppo, però, tutti i provvedimenti emanati non hanno ancora determinato una struttura che possa essere considerata definitiva. Una struttura cioè equa nei confronti dei lavoratori, stabile sotto un profilo finanziario e soprattutto sostenibile da un punto di vista sociale.
Dopo le sconsiderate disposizioni introdotte nel 1988, infatti, che avevano incrementato clamorosamente la copertura garantita dall’Inps sino a livelli alla fine insostenibili per le finanze pubbliche, la prima riforma che ha iniziato a ridurre la spesa pensionistica è stata quella emanata dal Governo Amato con la famosa finanziaria degli oltre 90mila miliardi di lire. Il Governo Amato era intervenuto sull’età pensionabile (incrementandola), sui requisiti contributivi richiesti per l’accesso alle prestazioni (incrementandoli anch’essi) e sul calcolo della prestazione. A suo tempo il metodo retributivo era stato mantenuto, ma l’applicazione era stata differenziata a seconda se il lavoratore al 31 dicembre 1992 fosse o meno in possesso di 15 anni di contribuzione. Un’applicazione che aveva previsto un impatto più soft per quelli con almeno 15 anni di contribuzione. Più stringente per quelli con meno. La discriminazione tra i lavoratori e l’eccessiva gradualità delle riforme nasce proprio da quella disposizione. Che tre anni dopo è stata ripresa totalmente dal Governo Dini e resa ancora più evidente tramite l’applicazione del nuovo metodo di calcolo contributivo. Tre anni dopo infatti, al 31 dicembre 1995, il limite dei 18 anni di contribuzione ha rappresentato lo spartiacque per l’applicazione integrale, pro rata, o addirittura l’esenzione dal nuovo sistema introdotto.
Inutile dire come la mancata previsione del metodo contributivo nei confronti di tutti i lavoratori abbia comportato un significativo incremento della spesa pensionistica pubblica e generato i tanti problemi di stabilità finanziaria che ora, in assenza di una crescita sostenuta del nostro Paese, stiamo affrontando.
Nel 1992 il Governo Amato aveva introdotto anche ulteriori norme per contenere la spesa pensionistica. In primis una revisione delle modalità di rivalutazione delle pensioni in corso di erogazione (disposizione ripresa poi anche da altre riforme) nonché il collegamento di alcune prestazioni per invalidità e decesso ai redditi percepiti dal nucleo familiare dell’avente diritto.
Negli anni successivi altre riforme si sono ulteriormente succedute. Nel 1997 la riforma del Governo Prodi, nel 2004 la riforma dell’allora ministro Maroni, nel 2007 ancora il governo Prodi. Nel 2009 e nel 2011 il ministro Sacconi. A eccezione della riforma del governo Prodi del 2007 (che aveva reso più graduali i requisiti in precedenza stabiliti e aveva incrementato la spesa nel breve termine) tutte le altre modifiche hanno provveduto a ridurre la copertura offerta dall’Inps attraverso diverse disposizioni. L’obiettivo è stato sempre quello di ritardare il momento di accesso alle prestazioni e ridurre, se possibile, la copertura offerta. In tale ottica sono state introdotte le cosiddette “finestre” (il periodo intercorrente tra la maturazione del diritto alla prestazione e l’erogazione della prestazione stessa), la revisione automatica collegata all’evoluzione della speranza di vita della popolazione italiana dei requisiti demografici e contributivi per la maturazione delle prestazione, la revisione automatica anche dei coefficienti di conversione in pensione dei montanti contributivi maturati. Fino alla riforma Fornero del 2011. Che ha, forse un po’ tardi, introdotto il metodo contributivo per tutti (pro rata dal 1? gennaio 2012), incrementato decisamente i requisiti necessari per l’accesso alle prestazioni di vecchiaia o anticipata e bloccato la rivalutazione delle pensioni in corso di erogazione.
Nel frattempo, per ovviare alla riduzione della copertura garantita dall’Inps, si è tentato di sviluppare il settore della previdenza complementare. Il primo intervento è relativo al 1993 con il Dlgs 124. Il quadro è stato perfezionato nel 2000 (con il Dlgs 47) e nel 2005 (con il Dlgs 252).
Il risultato può essere notevolmente migliorato. Pur in presenza ormai di una significativa esigenza di copertura pensionistica addizionale, infatti, solo un lavoratore su quattro ha deciso di iscriversi a un fondo pensione. Il patrimonio posseduto dalle forme pensionistiche complementari è pari a circa il 7-8% del Prodotto interno lordo rispetto a percentuali ben più consistenti rilevabili negli altri Paesi europei. Purtroppo le disposizioni ora contenute nella legge di Stabilità non aiutano.
Il Sole 24 Ore – 11 novembre 2014