di Alberto Brambilla
Pensioni, le novità della Manovra
Anzitutto va precisato che la legge di Bilancio per il 2024 prevede una serie di costosi interventi di natura assistenziale ma non contiene provvedimenti per le politiche attive del lavoro quali ad esempio il super ammortamento dei costi per il personale assunto; se il dipendente ha un costo azienda pari a 100, sul modello di industria 4.0 si potrebbe concedere un ammortamento pari al 125/130% che consentirebbe alle imprese gravate da una pressione fiscale intorno al 52% (il che sottrae molte risorse che potrebbero essere usate per aumenti delle retribuzioni e investimenti) di migliorare le retribuzioni e la produttività con nuovi investimenti organizzativi e in macchinari.
Non ci sono particolari riferimenti per favorire l’incontro tra domanda e offerta ne incentivi per le scuole professionali nonostante la forte richiesta delle imprese e la scarsa disponibilità di professionalità adeguate. Tra le assistenze, le decontribuzioni e le agevolazioni contributive, come vedremo, assorbono gran parte della spesa accanto a bonus e AUUF (assegno unico universale per i figli). Per quanto riguarda le pensioni la situazione per il 2024 permane simile a quella del 2023 con qualche ulteriore inasprimento dei requisiti per il pensionamento.
Pensione di vecchiaia nel 2024
Andiamo con ordine: nel 2024 si potrà eccedere alla pensione di vecchiaia con 67 anni di età e almeno 20 di contribuzione (quota 97); l’età anagrafica che è adeguata alla aspettativa di vita rimarrà a 67 anni fino a fine 2024; nel 2025 è probabile un aumento a 67 anni e 2 o 3 mesi. La Pensione di vecchiaia anticipata resta possibile con 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva indipendentemente dalla età anagrafica (41 anni e 10 mesi per le donne) senza ulteriori adeguamenti alla aspettativa di vita che potrebbe però verificarsi nel 2025.
Cosa cambia con Quota 103
Quota 103, introdotta in sostituzione di quota 102 del Governo Draghi a decorrere dall’1/1/2023 e che consente di andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 di contributi, dal 2024 cambierà: infatti vengono mantenuti i requisiti di 62 anni con 41 di contributi ma: a) l’intera pensione sarà calcolata con il metodo di calcolo contributivo anche per la parte di anzianità che fino a fine anno resta calcolata con il metodo retributivo; vale a dire i periodi lavorati antecedenti l’1/1/1996 per coloro che al 31 dicembre 1995 avevano più di 18 anni di anzianità e fino al 31 dicembre 2011 quando la legge Fornero ha introdotto per tutti il contributivo pro rata; a 63 anni di età e con il 50% di contribuzione retributiva, la riduzione della pensione potrebbe raggiungere il 6%; b) la misura dell’assegno non potrà risultare superiore a quattro volte il trattamento minimo Inps (2.272€ euro lordi al mese) sino al compimento dell’età di 67 anni; sino al 31/12/2023 l’assegno non deve superare cinque volte attuali (circa 2.800 €); c) vengono inasprite le cosiddette “finestre mobili” vale a dire il periodo intercorrente tra la maturazione dei requisiti (62 anni e 41 anni di contributi) e la fruizione della prima rata di pensione che passa dai tre mesi previsti dalla norma per il 2023, a 7 mesi per i dipendenti privati e da 6 mesi a 9 mesi per i dipendenti pubblici; d) chi opta per quota 103 (come per quota 100 e 102) è vigente il divieto di lavorare e quindi non potrà cumulare redditi da lavoro con quelli da pensione fino al raggiungimento dei 67 anni di età. Resta confermata la possibilità per il lavoratore dipendente che dopo aver maturato i requisiti per accedere a una delle forme pensionistiche, continua a lavorare di chiedere che la contribuzione a suo carico pari al 9,19% venga inserita in busta paga mentre la quota a carico del datore di lavoro continuerà ad essere versata all’Inps. Tuttavia, la parte di contributi incassata in busta paga non contribuirà ad incrementare la propria pensione e però verrà assoggettata a tassazione Irpef. Insomma, un affare per lo Stato ma non per il lavoratore; per quest’ultimo, potendo, sarebbe più conveniente optare per l’uscita con 42 anni e 10 mesi se maschio e un anno in meno per le donne, senza limiti di età e con solo 3 mesi di finestre mobili e senza ricalcolo contributivo, divieto di cumulo tra redditi da pensione e da lavoro e riduzione dell’assegno pensionistico. Ovviamente chi ha maturato i requisiti di «Quota 103» entro il 31 dicembre 2023 potrà richiedere la pensione nel 2024 e negli anni seguenti mantenendo le più favorevoli condizioni previste dalla attuale normativa. Lo stesso potrà fare chi ha maturato i requisiti di quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi entro il 31/12/2021) e quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi entro il 31/12/2022).
Ape Sociale: sale il requisito anagrafico
L’Ape Sociale viene prorogata sino al 31 dicembre 2024 ma sale il requisito anagrafico: anziché gli attuali 63 anni si potrà accedere alla prestazione con 63 anni e cinque mesi. Possono accedere a Ape social: a) i lavoratori disoccupati con almeno 63 anni e 5 mesi di età e 30 anni di contribuzione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale o dipendenti di aziende con tavolo di crisi aperto presso il Ministero e che hanno esaurito i periodi di disoccupazione, tipo Naspi; b) le persone con 63 anni di età e 30 anni di contribuzione, con disabilità pari o oltre il 74% e riconosciuti invalidi civili; c) i lavoratori con 63 anni di età e 30 anni di contribuzione che assistono da almeno 6 mesi persone disabili conviventi, con disabilità grave in base alla legge 104 del 1992, siano di primo o secondo grado di parentela (solo per over 70); d) lavoratori dipendenti che svolgono mansioni cosiddette “gravose” con almeno 63 anni di età e 36 anni di contribuzione e che al momento della domanda di accesso all’Ape sociale, abbiano svolto una o più delle professioni contenute nell’Allegato n. 3 alla legge n. 234/2021 per almeno sei anni negli ultimi sette oppure per almeno sette anni negli ultimi dieci; non è stato fatto il preannunciato ampliamento delle categorie di lavoratori gravosi riconosciute dalla legge n. 234/2021. Per il 2024 è inserita, oggi assente, la previsione di incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o autonomo ad eccezione del lavoro occasionale entro un massimo di 5.000€ annui. L’assegno è sempre calcolato col sistema misto ma con le limitazioni dell’importo massimo a 1.500 euro lorde mensili, senza tredicesima e senza gli adeguamenti dovuti all’inflazione fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia a 67 anni
Il taglio delle pensioni dei dipendenti pubblici
La legge di bilancio prevede una riduzione delle prestazioni maturate prima del 31 dicembre 1995 per gli assicurati presso le ex casse di previdenza amministrate dal Tesoro e ora dall’Inps dopo l’incorporazione dell’Inpdap per il personale del pubblico impiego: CPDEL per i dipendenti degli enti locali, CPI, cassa pensioni insegnanti; CPS, cassa pensione sanitari e CPUG, cassa pensioni ufficiali giudiziari) in possesso di meno di 15 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995 e che andranno in pensione a decorrere dal 1° gennaio 2024; secondo i calcoli le prestazioni relative alle contribuzioni versate prima del 1996, si ridurranno sensibilmente perché verrebbero ridotte le aliquote di rendimento, estremamente e forse troppo favorevoli, previste dalle vecchie leggi n. 965/1965 e n. 16/1986, sostituendole con le aliquote in vigore per i lavoratori dipendenti privati (2% circa per ogni anno lavorato); ciò comporterebbe una riduzione elevata delle rendite pensionistiche (secondo i calcoli della Cgil di oltre 4.320 euro l’anno nel caso di una retribuzione lorda di 30mila euro a quasi 7.390 euro per chi ha uno stipendio lordo di 50mila euro con una perdita stimabile tra il 5% e il 25% dell’assegno pensionistico annuale, da moltiplicare per l’aspettativa di vita media; il provvedimento riguarderebbe circa 700 mila (stima del Governo) lavoratori pubblici di cui circa 3.800 medici. Tuttavia, essendo una misura ex post senza l’applicazione del principio del pro-rata, la proposta governativa presenta profili di incostituzionalità tanto che alcuni membri del Governo, anche per evitare un esodo massiccio di medici entro fine anno, hanno annunciato modifiche. Probabilmente la norma verrà rimodulata.
Pensione di vecchiaia anticipata
La legge di bilancio per il 2024, contrariamente a quanto previsto dalla legge del 2019, fortemente voluta dalla Lega, che ha introdotto quota 100 e il reddito di cittadinanza e che ha congelato fino al 31/12/2026 l’adeguamento dei requisiti per la pensione di vecchiaia anticipati fissati dalla riforma Fornero in 42 anni e 10 mesi per gli uomini (un anno in meno per le donne), anziché eliminare definitivamente tale adeguamento che non trova applicazione nella normativa pensionistica della stragrande maggioranza dei Paesi Ue e Ocse, anticipa di due anni, al 2025, l’adeguamento alla speranza di vita per chi va in pensione a prescindere dall’età una volta raggiunti i 42 anni e 10 mesi di contribuzione (41 e 10 le donne). Pertanto, in assenza di auspicabili correzioni, dal 2025 la pensione anticipata si potrebbe ottenere con oltre 43 anni di contribuzione con il paradosso che a 67 anni di età e con solo 20 anni di contribuzione si potrà accedere alla pensione che generalmente beneficia di soldi pubblici (integrazioni al minimo, maggiorazioni sociali e incrementi vari fortemente voluti da Forza Italia per coloro che hanno versato pochi contributi e quindi poche tasse in 67 anni di vita) mentre con oltre il doppio (42 anni) non si potrà accedere alla prestazione pensionistica: pare una distorsione di sistema.
La «pace contributiva»
Per i cosiddetti “contributivi puri”, cioè, coloro che hanno iniziato a lavorare dall’1/1/1996 in poi, si ripristina (dopo la sperimentazione del triennio 2019-2021) per il biennio 2024-2025 la facoltà di riscattare i periodi non coperti da contribuzione entro un massimo di cinque anni. Questa possibilità non riguarda i retributivi e i misti cioè coloro che al 31/12/1995 avevano più di 18 anni di contribuzione i primi e meno di 18 anni di contribuzione i secondi. I contributivi puri, cioè quelli che al 31 dicembre 1995 risultano privi di anzianità contributiva iscritti all’Ago (Assicurazione generale obbligatoria) come lavoratori dipendenti, alle gestioni degli autonomi e alla gestione separata Inps, potranno riscattare fino a 5 anni, anche non consecutivi, di “vuoti contributivi” tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2023. Il costo del riscatto è calcolato con il sistema contributivo, (comma 5 art. 2 del decreto 30.4.1997) che prevede l’applicazione dell’aliquota contributiva in vigore nella gestione in cui si chiede il riscatto: per un dipendente il 33% del proprio imponibile, per un autonomo in media il 24%, per un lavoratore iscritto alla gestione separata INPS il 25,72% rapportato alla retribuzione da lavoro percepita nei dodici mesi precedenti la domanda e moltiplicato per gli anni da riscattare (anche di studio universitario). Tale onere è detraibile al 50 % dai redditi nell’anno del versamento e nei 4 successivi e potrà essere versato in un’unica soluzione o in più tranche, fino a 120 rate mensili di importo non inferiore a 30 euro. Qualora si scelga la rateizzazione, non verranno applicati interessi. Non solo: il testo della norma prevede che per i lavoratori privati il costo del riscatto potrà essere sostenuto dal datore di lavoro attraverso i premi di produzione spettanti al lavoratore. In questo caso le somme versate dall’azienda saranno deducibili ai fini Ires. Il riscatto potrà far anticipare la pensione di massimo 5 anni rispetto ai 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) e rispetto ai 20 della vecchiaia. Resta da vedere se verrà confermata la norma che consente ai contributivi il riscatto della laurea a condizioni vantaggiose (contributo forfettario annuale, calcolato moltiplicando il minimo imponibile previsto per artigiani e commercianti per l’aliquota previdenziale dei lavoratori dipendenti vigente al momento della richiesta peri, per il 2019 a circa 5.240 euro per ogni anno di studio da riscattare) o se il provvedimento descritto incorpora, con le nuove modalità, anche il precedente. Sugli altri requisiti per il riscatto della laurea valgono le regole ordinarie.
Pensione, cambiano i requisiti per il contributivo
Per i lavoratori interamente contributivi, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare dall’1/1/1996 in poi, cambiano i requisiti per andare in pensione rispetto a quelli previsti dalla riforma Fornero.
In realtà poiché il nostro sistema pensionistico è a ripartizione (vale a dire che con i contributi dei lavoratori attivi si pagano le pensioni) la legge Fornero aveva, sotto il profilo tecnico, erroneamente suddiviso i lavoratori in due gruppi: i retributivi e misti che godono di requisiti più favorevoli per il pensionamento e beneficiano della integrazione al minimo o della maggiorazione sociale nel caso in 67 anni di vita non raggiungano il minimo pensionistico (per raggiungerlo basterebbero solo 15 anni di normale contribuzione ma oggi quasi il 25% dei pensionati ne beneficia il che induce a pensare a una larga dimensione del lavoro irregolare); i contributivi puri che non hanno né integrazione al minimo né maggiorazioni sociali e che inoltre per accedere alla pensione di vecchiaia anticipata con 64 anni di età e 20 di versamenti devono avere una pensione almeno pari a 2,8 l’importo dell’assegno sociale (circa 1.350 euro al mese); diversamente devono attendere la vecchiaia a 67 adeguata alla speranza di vita; ma potranno accedere alla vecchiaia solo se la loro pensione sarà pari almeno a 1,5 volte l’assegno sociale se no devono lavorare fino al raggiungimento dell’importo o fino a 71 anni.
Visti i proclami della Lega e considerando che la divisione delle platee non è compatibile con il sistema a ripartizione, si pensava che finalmente si estendessero i requisiti e i benefici dei retributivi/misti anche a loro.
Invece, incomprensibilmente visto che i primi pensionati contributivi arriveranno tra il 2030/32, la legge di Bilancio ha modificato i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia anticipata; dal 2024, vi potranno accedere solo se l’importo dell’assegno sarà pari almeno a 3 volte il valore dell’assegno sociale (nella versione iniziale era addirittura 3,3 volte), tranne nei casi di donne con figli, che vedranno scendere il tetto a 2,8 volte la pensione sociale con un figlio e 2,6 volte in presenza di più figli.
Inoltre:
- l’assegno non potrà eccedere le 5 volte il minimo Inps (cioè, circa 2.840 euro lordi al mese) sino al raggiungimento dei 67 anni (cioè, l’età di vecchiaia) mentre la legge Fornero questi limiti non li poneva;
- è prevista una “finestra mobile” di tre mesi dalla maturazione dei requisiti, non prevista dalla legge Fornero;
- il requisito contributivo di 20 anni dovrà essere adeguato alla speranza di vita calcolata dall’Istat; la legge Fornero prevedeva l’adeguamento solo per il requisito anagrafico. Invece, in modo per la verità un poco schizzofrenico, per quanto riguarda l’accesso alla pensione di vecchiaia, la legge di bilancio elimina il limite di 1,5 volte l’assegno sociale per l’accesso alla pensione di vecchiaia a 67 anni con almeno 20 anni di contributi mentre restano i requisiti di accesso alla vecchiaia con 71 anni d’età e almeno 5 anni di contributi a prescindere dell’importo del trattamento che comunque non beneficia di alcuna integrazione.
Pensioni, come cambia l’indicizzazione nel 2024
Per finanziare l’aumento delle pensioni basse e parte della decontribuzione il cui costo stimato per il 2024 è di circa 15 miliardi, la legge di bilancio modifica quella dello scorso anno inasprendo ulteriormente le penalizzazioni sulla rivalutazione delle pensioni.
Nell’anno 2024 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici all’inflazione, in deroga a quanto previsto dalla legge base del 1998 (articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448) che prevedeva una rivalutazione al 100% per i trattamenti fino a 4 volte il valore del trattamento minimo Inps; del 90% da 4 a 5 volte il minimo e del 75% per le pensioni oltre 5 volte il minimo; inoltre tale rivalutazione era per scaglioni: ad esempio una pensione pari a 8 volte il minimo veniva rivalutata al 100% fino a 4 volte poi al 90% tra 4 e 5 volte e per il resto al 75%.
Invece la norma scritta dal ministro Giorgetti, copiando il metodo Conte, prevede che la rivalutazione si applica al valore più basso sull’intero importo: ad esempio la nostra pensione pari a 8 volte il minimo verrà rivaluta interamente al 37% dell’inflazione con una enorme perdita per i pensionati che, non avendo altro mezzo contrattuale devono subire interamente la perdita.
Si rammenta che l’importo minimo provvisorio della pensione nel 2023, così come evidenziato nella circolare Inps n. 35/2023, è pari a 563,74 euro (cresciuto del 7,3% rispetto al 2022), che maggiorato dell’1,5% per le pensioni minime diventa 572,20 euro, mentre maggiorato del 6,4% per gli over 75, diventa 599,82 euro.
La rivalutazione delle pensioni all’inflazione: lo schema
Pertanto, nel 2024 (si riporta la dizione in legge di bilancio) la rivalutazione all’inflazione sarà:
- per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS, l’adeguamento all’inflazione sarà pari al 100 per cento;
- per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi:
1) nella misura del 85 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla lettera a), l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.
2) nella misura del 53 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
3) nella misura del 47 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a otto volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
4) nella misura del 37 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a otto volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a dieci volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a dieci volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dal presente numero, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
5) nella misura del 22 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a dieci volte il trattamento minimo INPS; era nel 2023, il 33%.
Quanto ci rimettono le pensioni pari a 10 volte il minimo
Con una inflazione 2022 pari all’8,1% e inflazione 2023 al 5,8% per un totale semplice del 13,9%, un pensionato con prestazione pari a 10 volte il minimo (5.637 euro lordi, circa 3.890 euro netti), dopo aver pagato ogni mese per 13 mensilità oltre 25 mila euro di tasse, si troverà la sua pensione rivalutata solo del 22% (il 3,058% anziché il 13,9%) con una perdita di potere reale d’acquisto in 2 anni del 10,8%; anziché essere rivalutata del 13,9% (783,5 euro) sarà rivalutata del 3,058% (172,4 euro) con una perdita annua di 611,1 euro x 13 mensilità = 7.944,3 euro; se il pensionato vivrà 10 anni e l’inflazione fosse per il decennio del 2%, la perdita sarà di oltre 100 mila euro.
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