Per un assegno annuale da 40mila euro lordi l’aumento teorico è di 348, ma sul conto ne arriveranno meno di 205. La legge di stabilità fa ripartire la rivalutazione delle pensioni per tutti, con un meccanismo progressivo che dà qualcosa di più a chi riceve di meno: fino al 41% degli aumenti prodotti dalle nuove regole, però, finirà in realtà nelle casse dello Stato, perché gli incrementi dell’assegno aumentano l’imponibile Irpef e riducono gli importi delle detrazioni. Partiamo dall’inizio: oggi l’indicizzazione, cioè il sistema che prova ad agganciare le pensioni alla dinamica del costo della vita, si applica solo per gli importi fino a tre volte il minimo, e lascia immutati tutti gli altri assegni. Dal 2014 tornerà in campo un meccanismo per fasce, che agli assegni fino al triplo del trattamento minimo continua a garantire la rivalutazione “integrale”, e riserva poi tassi di incremento via via più bassi all’aumentare della pensione.
Il meccanismo, appunto, è per fasce, e di conseguenza incide su tutti gli assegni previdenziali, a prescindere dall’importo: una pensione da 4mila euro all’anno, per esempio, viene rivalutata integralmente per le fasce più basse (fino a 1.486,29 euro lordi secondo gli importi del trattamento minimo fissati per il 2013), e poi con incrementi più contenuti per le fasce più alte, fino ad azzerarsi da quota 2.972,58 (sei volte il minimo). Dal 2015, invece, una rivalutazione minima, pari al 50% del tasso totale, è in calendario anche per le fasce di pensione più alta.
La teoria degli indici di rivalutazione, che sono agganciati all’indice dei prezzi al consumo (in via provvisoria si utilizza quello dei primi nove mesi dell’anno precedente, che nel 2013 si è attestato allo 0,9 per cento) si scontra con la pratica dei meccanismi fiscali; che, in nome della progressività, aumentano l’Irpef e diminuiscono gli sconti al crescere del reddito.
Per capire le conseguenze di questo incrocio basta fare i conti per qualche pensione-tipo: chi riceve 10mila euro all’anno, per esempio, in base all’indice Istat dei prezzi al consumo disponibile oggi, ha diritto a una rivalutazione lorda da 90 euro: 20,7, però, se ne vanno nell’Irpef, che naturalmente “aggredisce” anche il nuovo imponibile, e altri 5,6 scompaiono perché si alleggerisce la detrazione, cioè lo sconto che il Fisco applica alle imposte sui redditi da pensione. Risultato: l’aumento netto della pensione si attesta a 63,7 euro, cioè il 70,7% di quanto “promesso” dall’indicizzazione.
Va ancora peggio, com’è naturale, quando l’assegno previdenziale è più alto. A 25mila euro, per esempio, l’indicizzazione promette 219,9 euro in più all’anno, ma sul conto del pensionato ne arrivano solo 153,6, cioè il 69,9 per cento. Da 30mila euro in su, poi, la distanza si amplia ancora, e il netto in busta risulta alleggerito del 41% rispetto alla rivalutazione lorda. In valore assoluto, con l’indice attuale e a meno di una (improbabile) fiammata inflattiva, il beneficio massimo annuale si raggiunge poco sotto quota 40mila euro (sei volte il trattamento minimo: con i dati attuali si arriva a 38.643,54 euro lordi), e ammonta a 205 euro all’anno, cioè 15,7 euro per ogni assegno.
Una spinta troppo lieve non aiuta la ripresa
Quindici euro. La cifra netta massima che, con gli indici attuali, il meccanismo di rivalutazione introdotto dalla legge di stabilità potrà portare ai conti dei pensionati italiani è sorella gemella dell’aumento massimo che il taglio del cuneo fiscale garantirà ai lavoratori dipendenti. Certo, in entrambi i casi è una buona notizia, perché dà una piccola mano e segna un’inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto finora: in entrambi i casi, però, ci si chiede se l’aiuto basti a rivitalizzare un po’ i consumi interni, e ad agganciare una ripresa 2014 che giusto ieri l’Istat ha già “tagliato” allo 0,7%, cioè a un livello ancora più esile dell’1,1% evocato dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, nella Giornata del Risparmio. Per il cuneo fiscale il dibattito è già partito, ma anche in campo previdenziale le cifre dicono che il problema è lo stesso. Definire la platea dei “beneficiati” è una scelta politica, ma la politica deve sapere che senza un cambio di passo l’intervento indifferenziato rischia di essere anche quasi inconsistente.
IlSole 24 Ore – 5 novembre 2013