Il Sole 24 Ore. Sarà una delle prime grane del prossimo esecutivo. Con le dimissioni del governo Draghi, e lo scioglimento delle Camere, il dossier pensioni è rimasto fermo al palo. E lo slittamento in avanti, imposto dalle elezioni anticipate del 25 settembre, della “deadline” per il varo della legge di bilancio rispetto alla tradizionale scadenza di metà ottobre sembra fatto apposta per favorire dal 2023 un ritorno alla legge Fornero in versione integrale. Anche perché, considerando i tempi che saranno necessari per la formazione delle Camere e per la nascita del nuovo esecutivo, la presentazione della manovra potrebbe arrivare a un soffio dal termine del 31 dicembre, dopo il quale si sconfinerebbe in un pericoloso esercizio provvisorio.
Questo termine, oltretutto, coincide con quello fissato per la conclusione dell’esperienza annuale di Quota 102, introdotta dal governo Draghi quasi in funzione da ponte tra la fine della sperimentazione triennale di Quota 100 e una nuova mini-riforma previdenziale per rendere più flessibile il sistema pensionistico, seppure rimanendo rigidamente nel solco del metodo contributivo. Una riforma azzerata sul nascere dalla crisi di governo. A questo punto da gennaio, in assenza di alternative, tornerebbero automaticamente in vigore tutte le regole a suo tempo fissate dalla «Fornero», per altro molto apprezzate a Bruxelles.
Un’eventualità che il centrodestra vuole assolutamente evitare. Matteo Salvini punta dritto su Quota 41, la possibilità di uscire al quarantunesimo anno di versamenti a prescindere dall’età anagrafica. Forza Italia nelle scorse settimane aveva evocato l’ipotesi di una Quota 104. E anche per FdI il ritorno alla Fornero non è certo la soluzione migliore. A caldeggiare una flessibilità in uscita, seppure “sostenibile”, sono anche le forze politiche di centrosinistra, a partire dal Pd. Che guarda anche a una soluzione “minima”, in attesa di congegnare una nuova riforma, ovvero la proroga di Opzione donna e Ape sociale in versione rafforzata per i lavori gravosi.
Ma il poco tempo che avrà a disposizione il prossimo esecutivo per la costruzione della manovra non faciliterà certo il ricorso a interventi “invasivi”. Senza considerare che misure dall’impatto pesante sui conti pubblici, come ad esempio Quota 41 (che secondo le stime dell’Inps già il primo anno costerebbe oltre 4 miliardi) richiederebbero, con un quadro economico già in sofferenza e destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi a causa della crisi energetica e del conflitto russo-ucraino, quasi sicuramente il ricorso a nuovo deficit. Che difficilmente la Ue sarà disposta a concedere anche alla luce del probabile rallentamento della fase attuativa del Pnrr rispetto alla tabella di marcia predisposta da Draghi d’intesa con Bruxelles per centrare gli obiettivi del Pnrr.
La manovra, tra l’altro, di per sé dovrà assorbire un ulteriore appesantimento della spesa pensionistica, che sarà messa a dura prova dall’adeguamento degli assegni al caro prezzi: con un’inflazione dell’8% a fine anno l’impennata dei costi previdenziali sarebbe di 24 miliardi, secondo le stime degli esperti dell’Inps, elaborate anche sulla base delle valutazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Nell’ultimo Def, proprio per effetto dell’indicizzazione dei trattamenti, si prevede già un aumento della spesa pensionistica del 7% nel 2023. Ma con tutta probabilità la crescita delle uscite sarà più elevata. E l’Upb tra le pieghe di un report su Quota 100, messo a punto nelle scorse settimane con l’Inps, ha lanciato di fatto anche un altro allarme sottolineando che l’evoluzione demografica (aumento della speranza di vita, scarsa natalità, inversione nel rapporto tra numero di pensioni e numero di occupati) produrrà un aumento della spesa pensionistica in rapporto al Pil nei prossimi anni, a prescindere dall’effetto inflattivo. Anche senza la crisi di governo, in altre parole, allentare i cordoni della borsa sarebbe stato complicato.
La strada per correggere la legge Fornero, insomma, da mesi era già in salita. Dalle simulazioni dell’Inps emerge che anche l’ipotesi più soft per i conti pubblici, ovvero la proposta Tridico di un anticipo a 63 anni della sola fetta contributiva dell’assegno, costerebbe quasi 4 miliardi nel primo triennio. Ancora più elevato sarebbe l’impatto di un’uscita con 64 anni d’età e 35 di contributi e il trattamento interamente ricalcolato con il metodo contributivo (5,9 miliardi nei prossimi tre anni), per non parlare dell’opzione che prevede una penalizzazione del 3% sulla sola quota retributiva per ogni anni di anticipo, partendo sempre da 64 anni, rispetto alla soglia di vecchiaia: 6,7 miliardi tra il 2023 e il 2025. Con Quota 41 i costi salirebbero ulteriormente e già dopo 10 anni si raggiungerebbe un picco di spesa di circa 10 miliardi. Una situazione di difficile agibilità, insomma, è quella che si prospetta sul versante previdenziale per il prossimo governo. Che potrebbe forse prendere in considerazione l’ipotesi di prorogare di un anno la Quota 102 targata Draghi in attesa di valutare i reali margini di manovra per mantenere, almeno in parte, le promesse elettorali.