di Gian Antonio Stella. Non ci provino, a distinguere ancora figli e figliastri. Non ci provino, a toccare le pensioni degli italiani senza toccare prima (prima!) quelle dei dipendenti dei palazzi della politica o della Regione Sicilia. Un cittadino non può accettare di andare in pensione un paio di decenni dopo chi ancora può lasciare con 20 anni d’anzianità. Non solo non sarebbe equo ma, di questi tempi, sarebbe un insulto. Che esistono qua e là staterelli dai privilegi inaccettabili non lo dicono i soliti bastian contrari. Lo dice, per la Sicilia, lo stesso procuratore generale della Corte dei Conti isolana, Giovanni Coppola, nell’ultima relazione.
«L’opinione pubblica non comprende perché in Sicilia i dipendenti regionali possano andare in pensione con soli 25 anni di contribuzioni, o addirittura con 20 anni se donne, solo per il fatto di avere un parente gravemente disabile, mentre lo stesso non avviene nel resto d’Italia».
Errore: anche meno. Come nel caso dell’ispettore capo dei forestali Totò Barbitta di Galati Mamertino, che riscattando dei contributi precedenti, il 1 gennaio 2009 (ma da allora la legge non è cambiata) se n’è andato quarantacinquenne, dopo 16 anni, 10 mesi e 30 giorni. La previdenza, visto «il lavoro usurante», regala ai forestali siciliani un anno ogni cinque di servizio. Diceva di dover accudire un parente affetto da grave handicap: avuto il vitalizio, è partito per la Germania. Stracciato comunque, per età, dal record di Giovannella Scifo, una dipendente dell’ufficio collocamento di Modica (Ragusa) in quiescenza a 40 anni. «Non le pare esagerato?», le ha chiesto Antonio Rossitto di « Panorama». E lei, serafica: «Non le posso rispondere. C’è la privacy».
Fatto sta che, spiega la Corte dei conti, su 751 «regionali» andati nel 2010 in pensione 297 hanno lasciato in anticipo «rispetto all’ordinaria anzianità anagrafica e/o contributiva e, tra questi, ben 286 con le agevolazioni della legge 104/1992 che tanto ha fatto discutere per l’incomprensibile disallineamento rispetto alla normativa nazionale».
Fatto sta che, spiegava giorni fa sul Giornale di Sicilia Giacinto Pipitone, se è vero che nel 2004 la riforma Dini passò, con nove anni di ritardo, anche per i dipendenti pubblici siciliani, l’adeguamento non è mai stato varato per chi ha avuto la «fortuna» di essere assunto dalla Regione. Basti dire che «chi a livello statale ha ancora oggi quote di pensione da incassare col retributivo, fa il calcolo sulla media delle buste paga degli ultimi anni di servizio. I regionali calcolano invece la loro quota di retributivo sulla base dell’ultima busta paga incassata al momento di lasciare gli uffici: sfruttano quindi fino all’ultimo gli aumenti e i vari scatti di carriera». Conclusione? Risposta dei giudici contabili: «Nel 2010 i contributi versati sono diminuiti del 17% riuscendo a coprire appena il 32,2% della spesa».
Non basta: «lo stesso sistema più vantaggioso si applica anche sul calcolo della buonuscita. Per la maggior parte dei regionali viene calcolata moltiplicando il valore dell’ultimo stipendio». Risultato? Scrive Antonio Fraschilla: i direttori generali «vanno in pensione incassando un assegno medio di 420.133 euro, come certificato dalla Corte dei Conti, anche se hanno ricoperto l’incarico solo negli ultimi mesi della loro carriera».
Lo ricordino, Mario Monti ed Elsa Fornero: se non obbligano la Sicilia a eliminare immediatamente questi bubboni ogni loro sforzo per spiegare che la crisi planetaria è così grave da obbligare a pesantissimi sacrifici sarà inutile. Peggio: grottesco. Vale per i privilegi dei dipendenti regionali siculi, vale per quelli degli organi istituzionali.
Certo, al Senato non godono più dello stupefacente dono che fino a qualche anno fa veniva fatto da ogni presidente che, andandosene, regalava loro, a spese dei cittadini, due anni di anzianità. Ma ci sono ancora, a Palazzo Madama, persone che, assunte prima del 1998, possono andare in pensione prima di tutti gli altri italiani, a cinquant’anni o poco più, godendo anche di quella regalia. È giusto? È un diritto acquisito e quindi intoccabile anche quello?
È accettabile che, 16 anni dopo la riforma Dini, nonostante i ritocchi, non ci sia ancora un dipendente del Senato (quelli arrivati dopo il 2007 possono andarsene con qualche penalità ancora a 57 anni) che accantoni la pensione col sistema contributivo? Così risulta: dato che dal 2007 non è entrato alcuno, i primi soggetti al «contributivo» (peraltro maggiorato con un «aiutino» intorno al 18%) dovrebbero essere sette funzionari in arrivo nel 2012. Come possono capire, gli italiani, che quei fortunati godano di 15 mensilità calcolate sul 90% dell’ultima retribuzione e trasmesse intatte al 90% alla vedova se ha figli minori di 21 anni? Ma non basta ancora: nonostante le polemiche seguite alle denunce del passato come quella dell’«Espresso» che quattro anni fa rivelò che al Senato uno stenografo arrivava a 254 mila euro l’anno e un barbiere a 133 mila, le retribuzioni sono cresciute ancora dal 2006, in questi anni neri, del 19,1%. Arrivando a un lordo medio pro capite di 137.525 euro. Centodiecimila più di un dipendente medio italiano, il quadruplo di un addetto della Camera inglese (38.952) e addirittura 19 mila più della busta paga dei 21 collaboratori principali di Obama, che dalla consigliera diplomatica Valerie Jarrett al capo dello staff William Daley, prendono al massimo (trasparenza totale: gli stipendi dei dipendenti, nome per nome, sono sul sito della Casa Bianca) 118.500 euro. Lordi.
Sia chiaro: Palazzo Madama può contare su collaboratori, dai vertici fino agli operai, di eccellenza. Sui quali sarebbe ingiusto maramaldeggiare demagogicamente. Loro stessi, però, discutendo del loro futuro con l’apposita commissione presieduta da Rosi Mauro (sindacati di là, una sindacalista di qua) non possono non rendersene conto: di questi tempi, la loro trincea con tre liquidazioni (una interna, una dell’Inpdap, una del «Conto assicurativo individuale») e le due pensioni (una del Senato e ora ancora dell’Inpdap) è indifendibile. Tanto più che anche nel loro caso, il peso delle pensioni sui bilanci è cresciuto in modo spropositato.
Vale per Palazzo Madama, vale per il Quirinale dove troppo tardi la presidenza ha introdotto «misure dissuasive» con la previsione di «significative riduzioni» dei trattamenti pensionistici come un limite per l’anzianità «a regime» (campa cavallo…) di 60 anni con 35 di contributi (da leccarsi i baffi…), vale per Montecitorio, dove lo stipendio lordo è poco più basso che al Senato: 131.586 euro. Con tutto ciò che ne consegue sulle pensioni. Non sarà facile rompere certe incrostazioni. Verissimo. Ma è troppo facile far la faccia dura solo con i piccoli…
Corriere.it – Gian Antonio Stella – 10 dicembre 2011