Un giovane che è entrato nel mondo del lavoro nel 2020 all’età di 22 anni raggiungerà l’età pensionabile a 71 anni. Non solo si tratta del dato più alto tra i principali Paesi europei, ma l’assegno che riceverà sarà comunque modesto. Colpa delle carriere discontinue e dei salari bassi che associati al metodo totalmente contributivo con cui si calcoleranno gli assegni creano un mix esplosivo. Nel 2021, i lavoratori under 25 hanno infatti ricevuto in media 8.824 euro, pari ad appena il 40% della retribuzione media complessiva, mentre i lavoratori tra i 25 e i 34 anni hanno ricevuto in media 17.076 euro, l’78% della retribuzione media. In parallelo nell’arco di dieci anni, è cresciuta l’incidenza dei contratti a tempo determinato e quella dei contratti atipici arrivati a sfiorare il 40% del totale.
«La crescente precarizzazione e discontinuità lavorativa, associata a retribuzioni basse e mancanza di garanzie sociali, colpisce in particolare i giovani e le donne, rendendo più difficile il loro percorso di ingresso nel mercato del lavoro, la stabilità contrattuale e i livelli retributivi» ha spiegato Maria Cristina Pisani, presidente del Consiglio nazionale giovani presentando una ricerca realizzata assieme ad Eures sulla «Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani».
A suo parere, infatti, «la questione demografica e il passaggio al sistema contributivo puro mettono ulteriormente a rischio la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Questa tendenza impone ai cittadini di lavorare più a lungo per ricevere pensioni meno generose rispetto alle generazioni precedenti. La combinazione di discontinuità lavorativa e retribuzioni basse per i lavoratori under 35 determinerà un ritiro dal lavoro solo per vecchiaia, con importi pensionistici prossimi a quello di un assegno sociale, una situazione – rileva il Cng – che sarà socialmente insostenibile».
In base alle proiezioni di Eures sul valore delle pensioni atteso nei prossimi decenni per i lavoratori dipendenti che oggi hanno meno di 35 anni si vede che se la permanenza al lavoro si protraesse fino al 2057, determinando così un ritiro quasi a 74 anni (73,6), l’importo dell’assegno pensionistico ammonterebbe a 1.577 euro lordi mensili (1.099 al netto dell’Irpef), valore che equivale a 3,1 volte l’importo dell’assegno sociale.
Per i lavoratori in partita Iva (sempre con permanenza fino al 2057 e un ritiro a 73,6 anni) l’importo dell’assegno pensionistico ammonterebbe invece a 1.650 euro lordi mensili (1.128 al netto dell’Irpef), valore che equivale a 3,3 volte l’importo dell’assegno sociale.
«Una stima – aggiunge Alessandro Fortuna, Consigliere di Presidenza con delega alle politiche occupazionali e previdenziali – che evidenzia la grave distorsione del sistema pensionistico, così come attualmente definito, che non soltanto proietta nel tempo le diseguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva, ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a permanere nel mercato del lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità».
Alla luce di questi dati il Consiglio nazionale dei giovani continua a rivendicare l’introduzione di una pensione di garanzia per i giovani che preveda strumenti di sostegno e copertura al monte contributivo per i periodi di formazione, discontinuità e fragilità salariale dei giovani.
Interventi, aggiunge Fortuna, «cui dovranno accompagnarsi, se non si vuole ignorare il rischio di povertà cui sono esposte intere generazioni, modifiche strutturali che consentano un acceso stabile e di qualità nel mercato del lavoro restituendo, peraltro, sostenibilità a un modello previdenziale a scambio generazionale».
La Stampa