Un’assemblea sui temi della competitività, con un videomessaggio di Giorgia Meloni e la presenza di ben sei ministri. Al centro dell’appuntamento di Federmanager il tema della competitività, sul quale i punti di contatto con l’esecutivo sono tanti. Ma c’è stato spazio anche per un richiamo su altre materie, a partire da quella previdenziale che vede il mondo della dirigenza in trincea su una delle misure della legge di Bilancio: l’ulteriore ridimensionamento della rivalutazione degli assegni, per quelli superiori a dieci volte il minimo Inps (5.680 euro lordi).
«Nessuno si senta in diritto di ledere l’aspettativa verso le pensioni che ci siamo pagati di tasca nostra» ha detto il presidente Stefano Cuzzilla, subito dopo aver notato che «se l’esperienza è uno degli ingredienti costitutivi della competenza, bisogna accettare l’idea che lavoreremo più a lungo, non abbiamo alternative». La nuova stretta sui trattamenti più alti parte dallo schema messo a punti con la precedente legge di Bilancio, che ha gradualmente decurtato la rivalutazione degli assegni superiori alle 4 volte il minimo Inps (ovvero circa 2.272 euro lordi mensili). La percentuale di recupero dell’inflazione si riduce progressivamente e la vecchia scaletta prevedeva un 32 per cento per quelli della fascia più alta: valore che ora scende ancora, al 22. Per gli interessati, secondo le simulazioni dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, il costo medio solo dell’ultima modifica è di 504 euro lordi all’anno. Per il bilancio pubblico c’è un risparmio netto non sensazionale, circa 77 milioni l’anno; bisogna ricordare però che con l’intervento dello scorso anno lo Stato aveva messo in cassa circa dieci miliardi solo nei primi tre anni di applicazione del taglio, che una volta definito si trascina per tutto il periodo di percezione dell’assegno. I manager in pensione sono chiaramente tra le categorie maggiormente colpite e dunque fanno sentire la propria voce, dopo aver già attivato nelle settimane scorse cause legali che puntano a portare la questione alla Corte costituzionale. Ma l’assetto definito nel testo legislativo attualmente al Senato potrebbe anche non essere quello definitivo: se il governo avesse bisogno di ulteriori risorse per finanziare una revisione anche parziale della norma sulle aliquote di rendimento (che riguarda medici, infermieri e dipendenti dei Regioni e Comuni) potrebbe dare un ulteriore ritocco verso il basso alle percentuali degli ultimi scaglioni.
LO SCENARIO
D’altra parte il tema della “perequazione” delle pensioni è destinato a restare caldo anche in futuro, pure in uno scenario di vistoso allentamento dell’inflazione. Dal prossimo anno, se non ci saranno altri correttivi, dovrebbe tornare in vigore il più favorevole schema a scaglioni: rispetto a quello applicato per il 2023-24 la differenza sta – oltre che in percentuali più elevate (tra il 100 il 75 per cento) nel fatto che la decurtazione vale solo per le “fette” di pensioni che supera le soglie, mentre nell’attuale sistema a fasce va a penalizzare l’intero l’importo. Sempre l’Upb calcola che questo meccanismo più generoso per i pensionati costerebbe allo Stato circa 3,5 miliardi per ogni punto di inflazione. Dunque se la dinamica dei prezzi dovesse assestarsi subito al livello del 2 per cento voluto dalla Bce la spesa sarebbe di 7 miliardi l’anno, mentre con un indice in aumento del 3 per cento si arriverebbe ai 10. Sullo sfondo c’è però una novità potenzialmente di maggiore impatto. Nell’ambito del processo di revisione della spesa, un’apposita commissione dovrà valutare se cambiare a partire dal 2027 il metro di misura dell’inflazione: dall’attuale indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (Foi) si potrebbe passare al deflatore del Pil. Senza entrare troppo negli aspetti tecnici, si può dire che quest’ultimo indicatore tiene conto in misura molto più limitata degli shock esterni sui prezzi, tipicamente le crisi energetiche. Ad esempio nel 2022 a fronte di un Foi cresciuto dell’8,1 per cento il deflatore si è fermato al 3 per cento. L’utilizzo di questo riferimento avrebbe quindi consentito significativi risparmi allo Stato, mentre i pensionati, compresi quelli che percepiscono importi bassi, avrebbero quindi avuto un incremento del reddito assolutamente insufficiente a fronteggiare la corsa dei prezzi.
Luca Cifoni – Il Gazzettino