Il Sole 24 Ore. L’appuntamento è fissato per inizio dicembre. E l’orizzonte è quello del Def di aprile. Governo e parti sociali avranno a disposizione poco meno di quattro mesi per definire, possibilmente con un accordo, la riforma delle pensioni che dovrà scattare nel 2023 senza abbandonare il solco della legge Fornero e vincolando tutte le uscite anticipate al ricalcolo contributivo dell’assegno. La road map è stata abbozzata da Mario Draghi e dai leader di Cgil, Cisl e Uil nell’incontro di martedì a palazzo Chigi che ha segnato il disgelo tra governo e sindacati dopo l’ultimo teso faccia a faccia prima del varo della manovra, con tutto il suo carico di misure ora all’esame del Senato.
L’ipotesi “64+20”
Tra le opzioni sotto la lente dei tecnici dell’esecutivo c’è quella, indicata anche nel dossier della Commissione tecnica sulla riforma previdenziale istituita tre anni fa dall’allora ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, che permette il pensionamento anticipato, con ricalcolo contributivo del trattamento, con un minimo di 64 anni d’età e 20 di versamenti al raggiungimento di un ammontare mensile pari a 1,5-2,5 l’importo dell’assegno sociale. Una soluzione che offrirebbe di fatto anche ai lavoratori nel sistema “misto” (in parte retributivo) la possibilità di utilizzare un canale d’uscita simile a quello già previsto dalla legge Fornero ma solo per i soggetti totalmente “contributivi”, ovvero chi ha iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995. Secondo alcune stime, l’opzione contributiva “64+20”, ma con un assegno almeno 2,8 volte quello minimo, il primo anno costerebbe circa un miliardo.
La “derivata” 62+20 o 62+25
L’ipotesi di uscita con 62 anni d’età e 20, o 25, anni di versamenti è un po’ la derivata dell’opzione “64+20”. Questa via d’uscita avrebbe chiaramente un costo più elevato di quella precedente ma, almeno in parte, sarebbe in linea con la richiesta dei sindacati di pensionamenti flessibili già dai 62 anni d’età, anche se il trattamento verrebbe tutto ricalcolato con il “contributivo”.
L’anticipo parziale a 63 anni
Come è noto, già da tempo sul tavolo c’è la proposta del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di un anticipo a 62-63, o anche a 64, anni d’età della sola quota contributiva dell’assegno, con la fetta “retributiva” che sarebbe erogata alla soglia di vecchiaia dei 67 anni. L’anzianità contributiva necessaria sarebbe di almeno 20 anni e l’altra condizione sarebbe quella di aver maturato una quota contributiva di pensione di importo pari o superiore a 1,2 volte l’assegno sociale. Il primo anno i costi sarebbero di circa 450 milioni.
L’uscita nel segno del “63+41”
A palazzo Chigi e al Mef poco prima del varo della manovra era arrivata anche la proposta, abbozzata dalla Lega, di uscite con 63 anni e 41 di contribuzione. Una Quota 104 di fatto, che doveva rappresentare un’antipasto di Quota 41, cara al Carroccio (e anche ai sindacati): la pensione con 41 anni di versamenti a prescindere dal requisito anagrafico.
Il tavolo tecnico sulla manovra
Resta da vedere se governo e sindacati riusciranno a trovare un’intesa. «Il dialogo che avevamo auspicato ha preso la strada giusta», ha detto a Radio24 il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Già nei prossimi giorni scatterà il tavolo tecnico sui possibili miglioramenti del pacchetto pensioni della manovra. Quota 102 è intoccabile, ma i sindacati, così come una parte della maggioranza, puntano ad ampliare ancora la platea dell’Ape sociale, inserendo anche i “lavoratori precoci” e facendo scendere da 36 a 30 anni la soglia contributiva dei lavoratori edili. La pensione di garanzia per i giovani sarà invece al centro del confronto sulla riforma per il 2023.