Marco Rogari, Il Sole 24 Ore. Individuare una strada il più possibile condivisa per giungere a un equo assetto previdenziale nel 2023, dopo che si saranno esauriti i 12 mesi di Quota 102, e a una efficace destinazione degli 8 miliardi del Fondo taglia tasse. Gli obiettivi del tavolo tra governo e sindacati, che parte oggi dopo l’ultima, tesa riunione sulla manovra, sono abbastanza chiari, ma altrettanta chiarezza non sembra esserci sulle soluzioni da individuare per centrarli.
Mario Draghi ha mantenuto l’impegno preso con il leader sindacali di avviare rapidamente un confronto sul fisco e, soprattutto, sugli accorgimenti pensionistici da adottare una volta conclusi i 12 mesi di Quota 102, che non piace affatto a Cgil, Cisl e Uil. Ma il premier ha anche già fissato un preciso paletto: qualsiasi forma di flessibilità in uscita o di pensionamento anticipato dovrà essere vincolata al ricalcolo contributivo dell’assegno, sulla falsariga di quanto già previsto per Opzione donna, che tra l’altro la manovra proroga di un anno. Un vincolo, quello posto da Draghi, che non appare certo in linea con le richieste dei sindacati: flessibilità in uscita diffusa partendo dai 62 anni d’età o al raggiungimento dei 41 anni di contribuzione, oltre a specifiche tutele per giovani e lavori gravosi. E Cgil, Cisl e Uil senza risposte precise da parte del governo su previdenza e fisco minacciano di proseguire la mobilitazione che hanno indetto e di andare anche oltre.
Risposte che difficilmente potranno arrivare subito. Anche se sul fisco un’eventuale sintesi dovrà comunque essere trovata prima di Natale quando il Ddl di Bilancio arriverà all’ultimo miglio della sua navigazione parlamentare. Sulle pensioni l’orizzonte del confronto sembra essere quello del prossimo Def di primavera, da proiettare poi sulla manovra 2023. Tempi più lunghi, dunque. Ma le opzioni di partenza cominceranno ad essere valutate subito. A cominciare da quella finalizzata a consentire la pensione anticipata, ricalcolata in configurazione contributiva, con almeno 64 anni d’età e 20 di contribuzione al raggiungimento di un ammontare mensile pari a 1,5-2,5 l’importo mensile dell’assegno sociale. Questo canale d’uscita è sostanzialmente già previsto ma solo per i soggetti totalmente “contributivi” (chi ha cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995). Una derivata di questa opzione potrebbe essere quella con una soglia anagrafica minima a 62 anni, accompagnata magari da un requisito contributivo leggermente più elevato del “64+20”. In questo modo verrebbe recepita, seppure parzialmente, la richiesta dei sindacati di consentire i pensionamenti anticipati già con 62 anni d’età, anche se il trattamento sarebbe interamente contributivo.
Da valutare ci sono poi almeno altre due ipotesi. La prima è quella formulata nelle scorse settimane dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che prevede un anticipo a 62-63 anni della sola quota “contributiva” dell’assegno. La seconda proposta è quella confezionata dalla Lega poco prima del varo della manovra, che poggia su un pensionamento anticipato con 63 anni d’età e 41 anni di contribuzione, una sorta di “antipasto” di Quota 41. Ma delicato si presenta anche il capitolo della tutela pensionistica dei giovani. Con sindacati, Pd, Leu e M5S che spingono per la creazione di una vera pensione di garanzia.