All’inizio, sei anni fa, l’impatto della legge Fornero si era fatto sentire soprattutto su chi aveva scoperto di dover andare in pensione anche 4-5 anni dopo rispetto alla data prevista e magari si era ritrovato nella sfortunata schiera degli esodati. Ma c’è un’altra parte fondamentale di quella riforma delle pensioni i cui effetti, all’inizio praticamente nulli, crescono gradualmente nel tempo: è il passaggio di tutte le pensioni al metodo di calcolo contributivo. Un passaggio che riguarda non i requisiti richiesti per accedere al trattamento previdenziale ma l’importo dell’assegno, e che avviene pro rata, ovvero tenendo conto solo degli anni di carriera lavorativa successivi allo spartiacque del primo gennaio 2012. Da allora però di anni ne sono passati ormai quasi sei e il nuovo metodo di calcolo inizia a farsi sentire anche sulle pensioni di chi complessivamente ha versato contributi per 35-40 anni. Naturalmente l’impatto è destinato a crescere nel tempo, a mano a mano che l’incidenza della porzione contributiva diventa più significativa rispetto al totale. E diventano quindi sempre più rilevanti i due fattori che condizionano l’importo della pensione contributiva: l’andamento del Pil nominale, dato dalle crescita reale dell’economia e dall’inflazione, e l’evoluzione delle tendenze demografiche (che con l’adeguamento alla speranza di vita influiscono anche sui requisiti di età e di anzianità per l’uscita, al centro dello sconto di queste settimane).
LA RECESSIONE Quanto al primo aspetto, si può dire subito che il passaggio al nuovo metodo di calcolo è avvenuto in un momento piuttosto particolare, ovvero nel pieno della seconda grave recessione dopo quella del 2008-2009. Una tendenza che ha inciso negativamente sulla rivalutazione del cosiddetto montante contributivo. Questa avviene sulla base del Pil nominale: proprio per evitare sbalzi bruschi legati alla caduta della produzione era stato deciso a suo tempo di usare non il dato annuale ma la media mobile quinquennale. Nonostante ciò, dal 2012 in poi i tassi sono risultati appena positivi ed anzi una volta sono scivolati in territorio negativo: il che ha reso necessaria una apposita norma di legge per stabilire che in un caso del genere il montante non si riduce ma resta uguale a se stesso, senza rivalutazione.
Quanto ha pesato tutto ciò sull’importo delle pensioni? La domanda può avere senso se si sceglie un ipotetico scenario alternativo migliore, che naturalmente non si è realizzato. Prendiamo ad esempio i valori di crescita del Pil e di inflazione che il governo italiano ipotizza nelle proprie previsioni di lungo periodo sull’andamento della spesa previdenziale: non sono cifre roboanti ma certo migliori di quelle che si sono effettivamente concretizzate negli anni della crisi: per il prodotto è indicato un incremento reale dell’1,2 per cento l’anno che sommato ad un andamento dei prezzi al 2 per cento produce un aumento del Pil nominale appena sopra al 3,2 per cento. Se l’economia italiana avesse tenuto negli anni scorsi questo ritmo, l’assegno pensionistico di chi lascerà il lavoro a gennaio del prossimo anno – avendo alle spalle appunto sei anni di calcolo contributivo – sarebbe visibilmente più alto di quello che invece si materializzerà. Di quanto? Ipotizzando un’uscita per vecchiaia a 66 anni e 7 mesi con circa 42 anni di contributi, e una retribuzione pari a circa 2 mila euro lordi al mese nell’ultimo anno, il prezzo della crisi sfiorerebbe i 20 euro lordi al mese, poco più dell’1 per cento dell’assegno complessivo pari – nella realtà – a 1.670 euro circa.
ELEMENTO DECISIVO L’incidenza della quota contributiva aumenterà ancora con il passare degli anni, e le pensioni saranno quindi sempre più esposte nel quantum all’andamento dell’economia. Insieme alle tendenze demografiche, sarà proprio il Pil l’elemento decisivo non solo per la sostenibilità della spesa previdenziale ma anche per l’adeguatezza delle prestazione di cui potranno godere i lavoratori di oggi.
La mossa di Mdp e M5s: astensione in Senato «Un segnale ai lavoratori»
In Senato il voto d’astensione equivale a un no. Eppure non è passata inosservata, domenica sera, la decisione di Cinquestelle e di Articolo 1-Mdp di astenersi in commissione Bilancio sul decreto pensioni che recepisce l’accordo tra governo, Cisl e Uil sull’esclusione dall’aumento dell’età pensionabile di 15 categorie di lavori gravosi per un totale di 14.600 lavoratori.
Per i fuoriusciti dal Pd guidati da Pier Luigi Bersani, quell’astensione è stato «un modo per mandare un segnale» proprio «a quei 14.600 lavoratori», spiegano fonti di Mdp. Per dire: «Condividiamo la posizione della Cgil che ha bocciato un’intesa ritenuta insufficiente, ma siamo anche dalla parte di chi svolge lavori usuranti e trae giovamento dal decreto in quanto non subirà l’adeguamento automatico dell’età della pensione» all’aumento dell’aspettativa di vita.
IL GIRO DI INCONTRI La mossa dei senatori bersaniani, secondo il Pd, «serve a Mdp anche per non apparire schiacciato sulla Cgil». E per «non alzare il livello di scontro con gli altri due sindacati, Cisl e Uil che invece hanno firmato l’intesa». «La cosa curiosa», aggiunge una fonte qualificata di largo del Nazareno dopo l’incontro di ieri mattina tra i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda e il vertice della Cgil, «è che perfino la Camusso non è contraria al decreto, dice semplicemente che non basta, serve di più. Bah…».
Dai Cinquestelle esce poco o nulla. Ma anche i grillini, al pari di Mdp, con la loro astensione hanno inteso mandare un segnale sia ai 14.600 lavoratori che beneficeranno del decreto, sia alla Cisl e alla Uil. A sentire Roberto Ghiselli, segretario confederale della Cgil che insieme a Susanna Camusso ha incontrato i capigruppo grillini, i M5S avrebbero però anche «espresso ampia condivisione» per le posizioni del sindacato di Corso Italia.
L’ABBRACCIO CGIL-M5S «I Cinquestelle», riferisce ancora Ghiselli, «ci hanno detto che sono sulla nostra lunghezza d’onda riguardo a punti per noi significativi come donne, giovani e aspettativa di vita. Hanno già presentato emendamenti e altri ne presenteranno alla Camera, consapevoli dei margini stretti che ci sono. Hanno voluto sottolineare l’esigenza di avere momenti di confronto non occasionali»
Il Messaggero – 28 novembre 2017