(di Milena Gabanelli e Simona Ravizza – corriere.it) – Il principio è noto e antico: con i contributi del mio lavoro oggi pago chi sta prendendo la pensione, e domani ci dovrà essere qualcuno che lo farà per me. Se questo equilibrio si spezza, le casse dell’Inps e degli altri enti previdenziali saltano (vedi Dataroom del gennaio 2022 qui). L’attenzione dei governi è concentrata su come far reggere sul lungo periodo il sistema previdenziale che lega a doppio filo il numero di lavoratori a quello dei pensionati, considerando anche che non tutti i cittadini hanno la garanzia di un lavoro per almeno 40 anni. E a livello Paese chi è in difficoltà deve essere aiutato da chi sta meglio. Ma dove si collocano i margini di questo «equilibrio»? Da sempre i ragionamenti sono basati sui dati nazionali nel loro complesso. Invece l’ultima analisi del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali di Alberto Brambilla (sul 2021) dal titolo «La Regionalizzazione del Bilancio Previdenziale italiano», e che Dataroom ha potuto leggere in anteprima, sposta lo sguardo andando a vedere come stanno le cose dentro le singole Regioni. I risultati mostrano una radiografia impietosa. Vediamo perché.
I NUMERI DEL LOTTO
Ci risiamo: nuova legge di Bilancio, ennesima discussione(per ora solo annunciato) sulle regole per andare in pensione. Ormai è un po’ come dare i numeri del lotto con i cittadini che da anni in Italia non hanno nemmeno la possibilità di fare progetti per la propria vecchiaia: la legge Fornero scattata a gennaio 2012 (qui il provvedimento, art. 24) innalza l’età per la pensione di vecchiaia da 65 a 67 anni, e pone come requisiti per la pensione anticipata 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne (fino ad allora bastavano 35/36 anni, a patto di avere compiuto i 60/61 anni, «Quota 96»); nel gennaio 2019 il Conte I prevede la possibilità di andare in pensione a 62 anni e con almeno 38 anni di contributi («Quota 100», qui il provvedimento); poi dal 2022 il governo Draghi introduce «Quota 102»: 64 anni e 38 di contributi (qui il provvedimento, art. 1 comma 87); con la legge di Bilancio 2023 del governo Meloni i criteri cambiano di nuovo, e spunta «Quota 103» che riporta l’età per la pensione anticipata a 62 anni, ma stavolta con 41 di contributi (qui il provvedimento, art. 1 comma 283). Della scorse settimana il dibattito su «Quota 104»(63 anni e 41 di contributi) poi saltata su pressing della Lega. Ora l’ipotesi è di nuovo «Quota 103» ma con l’introduzione di un tetto all’assegno. Ancora una volta, dunque, si affronta il problema pensioni come se fossimo un Paese omogeneo dove a Milano e a Napoli ci sono le stesse opportunità, dove le problematiche della Calabria sono assimilabili a quelle delle Marche. In pratica ogni volta che si riforma il sistema per garantirne la sostenibilità di medio-lungo termine, si tira dritto senza mai andare a vedere cosa succede Regione per Regione.
LA BILANCIA IN EQUILIBRIO
Immaginiamoci, invece, una bilancia: su un piatto ci sono i contributi versati da lavoratori e datori di lavoro, dall’altro la spesa per le pensioni. La bilancia sta in equilibrio, secondo dati ormai consolidati, se il tasso di copertura è almeno del 75%: spendo 100, incasso 75, e al momento sui numeri generali lo è. Oggi il totale dei contributi versati all’Inps e alle altre casse previdenziali ammontano a 200,3 miliardi, le uscite per pagare le pensioni a 248,99 miliardi (ultimi dati disponibili, 2021). C’è un buco da 48,68 miliardi. Vuol dire che il tasso di copertura nazionale è pari all’80,45%. Ma se si guardiamo dentro le singole Regioni tutto cambia. Ecco come.
LE REGIONI VIRTUOSE E QUELLE NO
Il tasso di copertura è del 75% solo in 9 Regioni che sono: Trentino-Alto Adige (unica regione pienamente autosufficiente, 103%); Lombardia (99%), Veneto (93%), Lazio (90%), Emilia-Romagna (87%), Friuli -Venezia Giulia (78%), Valle d’Aosta e Toscana (76%) e Marche (75%). In Calabria il tasso di copertura è del 50%: ci sono entrate per 3,1 miliardi e uscite per 6,3; in Molise del 57%: ci sono entrate per 648 milioni e uscite per 1,1 miliardi; in Puglia del 60%: ci sono entrate per 8,2 miliardi e uscite per 13,6; in Sicilia del 61%: ci sono entrate per 8,9 miliardi e uscite per 14,5. E la lista continua: Basilicata 62%; Sardegna 63%; Liguria 65%; Umbria 66%; Campania e Abruzzo 68%; Piemonte 73%.
COSA C’È DIETRO I BUCHI
Andiamo a scoprire adesso cosa c’è dietro i buchi. E ci concentriamo su tre voci su tutte. La prima: le pensioni integrate al minimo che sono 2,5 milioni con una spesa di 6,4 miliardi. Sono quelle che scattano quando abbiamo versato contributi per almeno 15-20 anni (come prevede la legge per prendere la pensione), ma che non raggiungono il minimo per avere una pensione da 563,74 euro al mese (nel 2021, anno di riferimento dei dati, il valore è di 515,58 euro). La differenza ci viene integrata. Al Nord, dove vivono quasi 27,5 milioni di persone, ce ne sono poco più di un milione: vuol dire una ogni 26 abitanti, con 2,9 miliardi di spesa. Al Centro, dove abitano in quasi 11,8 milioni, ce ne sono 484.438: l’incidenza è di una ogni 24 abitanti per un totale di 1,2 miliardi di spesa. Nelle Marche una ogni 18 abitanti e in Umbria una ogni 19. Al Sud le pensioni integrate al minimo sono 966.116 con oltre 19,9 milioni di abitanti: una ogni 21 abitanti con una spesa totale di 2,3 miliardi. In Molise una ogni 13 abitanti, in Basilicata una ogni 15, in Calabria una ogni 17 e in Sardegna una ogni 19.
CONTRIBUTI INSUFFICIENTI
La seconda: gli assegni sociali che sono 816.701 per quasi 5 miliardi di spesa. Ci vengono versati quando non abbiamo pagato i contributi neanche per 15-20 anni. I requisiti: 67 anni d’età, residenza in Italia, e limite di reddito annuo che per il 2023 è fissato a 6.542,51 euro, mentre in caso di richiedente coniugato l’importo del reddito familiare sale a 13.085 euro. L’assegno sociale è di 503,27 euro al mese per 13 mensilità. Al Nord la spesa è di 1,2 miliardi con un assegno ogni 143 abitanti; al Centro di 995,5 milioni con un assegno ogni 73 abitanti; e al Sud di 2,7 miliardi con un assegno ogni 43 abitanti. In Sicilia ce n’è uno ogni 37 abitanti; in Campania uno ogni 40.
INVALIDITÀ PREVIDENZIALE
La terza: l’invalidità previdenziale che scatta quando c’è una riduzione di 2/3 della capacità lavorativa e almeno 5 anni di versamento dei contributi (3 nel quinquennio precedente alla domanda). Le pensioni di invalidità sono 974.813 e valgono per 12, 5 miliardi. A livello nazionale ce n’è una ogni 61 abitanti. Al Nord una ogni 88, al Centro una ogni 57, nel Mezzogiorno una ogni 44 (la frequenza, dunque, è doppia rispetto al Nord). Dettaglio regionale: in Campania una ogni 51 abitanti, in Puglia una ogni 39, in Sicilia una ogni 55. Impietoso il confronto con Lombardia e Veneto, dove ce n’è una rispettivamente ogni 110 e 102 abitanti.
LE STORTURE DA CORREGGERE
Evidentemente non possono essere fatte generalizzazioni, né messi all’indice i singoli individui. Ma dai numeri emerge in modo inconfutabile che qualcosa non va:
Per portare il sistema pensionistico in equilibrio è dunque necessario correggere anche le storture a livello regionale. Vuol dire intervenire sulle politiche regionali del lavoro: il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni al Nord è del 75%, contro il 52% del Mezzogiorno.
Vuol dire fare investimenti sulle infrastrutture strategiche (trasporti, energia e insediamenti produttivi) che stanno oggi penalizzando anche Piemonte e Liguria. Vuol dire attivare un controllo sistematico sull’evasione contributiva: può essere che così tante persone in 40 anni di lavoro non sono riusciti a versare per incassare il minimo? E infine vuol dire correggere la piaga delle invalidità: nulla spiega la ragione per cui in Campania, Puglia o Sicilia ci siano più invalidi che nelle altre regioni.