Un taglio tra l’1 e il 3% l’anno. Con la possibilità di arrivare eventualmente a quota 4% per gli assegni più elevati. A ufficializzare la forbice per la riduzione dei trattamenti previdenziali con il decollo dell’Ape (Anticipo pensionistico) che renderà più flessibili le uscite verso la pensione degli “over 63” è Matteo Renzi in persona. Che, a “Porta a porta”, conferma di fatto che la riduzione della pensione sarà variabile sulla base del numero di anni dell’anticipo e dell’entità dell’assegno percepibile al momento del raggiungimento della soglia di vecchiaia. «Stiamo studiando un meccanismo sapendo che ci sono i vincoli di Bruxelles e sulle leggi bisogna essere credibili», dice il premier. Che aggiunge: «Il meccanismo deve prevedere che per andare in pensione devi essere disposto a rinunciare a una piccola percentuale l’anno, che vada dall’1% al 3%. Solo per quelli che son messi male, hanno pensione bassa e hanno 65 anni puoi togliere l’1%, per gli altri puoi magari arrivare al 4%».
Renzi aggiunge che l’intervento sulle pensioni sarà «nella legge di stabilità» per il 2017, ma non esclude del tutto la possibilità di farlo scattare già quest’anno («se riusciamo anche prima, ma stiamo studiando i numeri»). E si dice pronto «a incontrare anche domani i sindacati dei pensionati».
Il confronto si svilupperà sul piano al quale sta lavorando da tempo la cabina di regia economica di Palazzo Chigi, guidata dal sottosegretario alla Presidenza, Tommaso Nannicini. Il finanziamento dell’operazione sarà garantito in gran parte da banche e assicurazioni, che provvederanno ad erogare attraverso l’Inps le fette di pensioni anticipate per effetto del “prestito”. Che sarà poi restituito dal pensionato a rate con un percorso pluriennale dal momento in cui sarà raggiunto il requisito di vecchiaia.
Gli interessi da garantire a banche e assicurazioni saranno invece a carico dello Stato, per un costo oscillante tra gli 800 milioni e il miliardo. Alla copertura dell’intervento non concorreranno risorse provenienti da un eventuale contributo di solidarietà delle pensioni con importi elevati, previsto ad esempio dal pacchetto di proposte presentato dal presidente dell’Inps. Per le situazioni di crisi o ristrutturazione aziendale potrebbe essere previsto un contributo diretto delle imprese. E un meccanismo agevolato potrebbe scattare per i lavoratori impiegati in mansioni usuranti. Il tutto facendo riferimento al criterio di “selettività” sollecitato dalla risoluzione di maggioranza all’ultimo Def, approvata nelle scorse settimane dal Parlamento.
L’intervento sarà in ogni caso strutturale: a beneficiarne dovrebbero essere in via permanente gli over 63. In una prima fase (probabilmente dal 2017) si partirebbe con i nati nel ’51, ’52 e ’53. Successivamente, come ha già detto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, dovrebbe toccare ai nati del triennio successivo. «Il problema è che in Italia ci sono state delle autentiche vergogne: fino agli anni ’80 c’erano le pensioni baby, poi si è iniziato a dire che bisognava andare in pensione un po’ più tardi», afferma Renzi. Che aggiunge: «Il principio che ha portato a aumentare l’età pensionabile non è sbagliato, ma il modo in cui è stato fatto ha portato una fascia di pensionati, nati tra il 1951 e il ’55 ad aspettare i 66 anni», con una penalizzazione rispetto a chi è nato solo un anno prima. «Magari molti sono contenti di lavorare, ma c’è anche gente a cui girano le scatole», osserva Renzi.
Sulla base delle ultime ipotesi sviluppate dai tecnici il taglio per ogni anno di anticipo rispetto al requisito di vecchiaia dovrebbe colpire in misura secca l’assegno toccando trasversalmente sia la componete retributiva che quella contributiva. Il dispositivo deve però ancora essere affinato, per non penalizzare troppo i pensionati con assegni bassi e anche per non provocare uno stop di Bruxelles. Tra i nodi da sciogliere anche quello relativo al percorso per rimborsi della pensione anticipata da restituire a rate. L’ammortamento potrebbe oscillare tra i 10 e i 20 anni con diverse fasi di durata a seconda dell’entità dell’assegno percepito per gli anni di anticipo.
Corte conti: flessibilità scelta politica
La flessibilità nell’età del pensionamento avrà dei costi e peggiorerà i conti dell’Inps ma «è una scelta politica su cui la Corte dei conti non si pronuncia». Così ieri la magistratura contabile è entrata in maniera apparentemente soft nel dibattito sulle nuove pensioni e sul sistema flessibile allo studio del Governo.
La Corte dei conti è intervenuta ieri in Parlamento, davanti alla bicamerale sugli enti di previdenza, con un mini rapporto presentato dal consigliere Natale Maria Alfondo D’Amico che ha anche risposto alle domande dei parlamentari. Non senza spiegare però che le riforme delle pensioni culminate con la “legge Fornero” del 2011, hanno messo al riparo dal «disastro», a “bocce previsioniali” ferme, i conti dell’Istituto di previdenza. A patto però che ci sia la crescita del Pil e che «l’Italia torni, da subito anche se gradualmente, su un sentiero di crescita moderata». Insomma, promozione con riserva per il futuro.
L’introduzione di misure per la flessibilità in uscita avrebbe dei costi, ha spiegato la magistratura contabile, che si aggiungerebbero a quelli indicati dal Def 2016 a partire dall’abolizione delle clausole di salvaguardia, dalla riduzione delle tasse e dall’aumento degli investimenti. Senza scordare che sono stati fissati precisi vincoli di finanza pubblica e «che il governo si è spinto al limite massimo possibile delle regole europee» sulla flessibilità. Ma a questo punto, la Corte dei conti ha preferito fermarsi. Perché «come comporre finanziariamente queste cose pare che sia una scelta essenzialmente politica».
E non che siano mancati da parte dei magistrati contabili i segnali di allarme per l’Inps. Come il disavanzo che nel 2023 rischia di arrivare a 12 miliardi, il gigantesco rebus plurimiliardario di crediti spesso sempre più impossibili da riscuotere. Per non dire, ancora, delle pensioni dei «lavoratori poveri» (il 20% dei pensionati con assegni sotto i 750 euro al mese), la flessibilità del mercato del lavoro, il gap longevità-capacità lavorativa. Senza trascurare il dilemma di una governance che non regge, con un presidente che ha tutti i poteri e un Cda che non c’è più. Va da sé: per la Corte, la governance Inps dovrebbe cambiare e il Cda resuscitare. Politica permettendo.
Davide Colombo Roberto Turno e Marco Rogari – Il Sole 24 Ore – 13 maggio 2016