Il contributo della riforma Fornero alla sostenibilità del sistema pensionistico corre lungo una curva che la Ragioneria generale dello Stato pubblica nelle sue ultimissime analisi sulle tendenze di medio-lungo periodo della spesa. Dopo una partenza bassa (0,1% di Pil nel 2012) i risparmi generati dal dl «Salva Italia» viaggiano in questi anni attorno ai 20 miliardi (1,4% del Pil nel 2020). Da sola questa riforma vale un terzo dei risparmi cumulati fino al 2060, ovvero 60 punti di prodotto se si considerano anche gli effetti delle riforme varate dal 2004 in poi.
Ieri il ministro Pier Carlo Padoan aveva in mente quella curva quando ha affermato, a Bruxelles, che sarebbe «un gravissimo errore» abolire quella riforma, «uno dei pilastri del sistema». Al massimo, ha aggiunto Padoan, si può pensare a qualche correzione.
Se guardiamo dentro il famoso articolo 24 del Dl 201/2011 incontriamo sei voci principali di interventi cui corrispondono, in relazione tecnica, i risparmi anno per anno. Quest’anno le nuove regole sui pensionamenti anticipati (che superano il precedente schema di quote) valgono 10,9 miliardi, la nuova vecchiaia delle donne e il nuovo anticipo per gli autonomi 2,8 miliardi, il “pro-rata” contributivo 200 milioni, dalla perequazione vengono 4,7 miliardi e dalle nuove aliquote per autonomi e fondi speciali arrivano altri 1,5 miliardi. Totale 19,9 miliardi di minor spesa. Risparmi che l’anno prossimo salgono per arrivare attorno ai 22 miliardi nel 2020. Poi la curva scende, con risparmi attorno allo 0,8% del Pil nel 2030, per azzerarsi nel 2045, quando ai minori pensionamenti corrispondono assegni più pesanti.
Insomma, toccare ora quell’impianto significa depotenziarlo nel momento di massima efficacia. E quei risparmi già scontano gli interventi per le otto salvaguardie-esodati. Non solo. Se per esempio cancellare la Fornero significasse cancellare anche le sue flessibilità, ecco allora cosa accadrebbe per esempio a un lavoratore che ha iniziato a versare contributi nel gennaio 1996: con le regole attuali l’anno venturo, a 64 anni con 20 anni di contributi può andare in pensione se il suo assegno è 2,8 volte superiore al minimo (1.400 euro lordi, 1.150 netti). Con il ritorno alla Maroni dovrebbe lavorare 35 anni.
Bisogna aspettare le proposte concrete per fare stime più precise d’impatto, e c’è da aspettarsi che gli interventi saranno accompagnati da coperture precise. Il ritorno al pre-Fornero non cancellerebbe invece lo stabilizzatore automatico che aggancia i requisiti di pensionamento alla speranza di vita, strumento già preso di mira negli ultimi mesi e che ha portato a una deroga di alcune categorie di gravosi dallo scatto del 2019 a 67 anni.
La sfida sulle pensioni sarà come sempre campale: su oltre 16 milioni di pensionati sono 6,2 milioni quelli che hanno un assegno attorno ai 5-600 euro. E anche su questo fronte non mancano proposte di adeguamento verso l’alto che avrebbero costi ulteriori da sostenere. Nella messa a punto delle proposte programmatiche definitive i partiti dovranno tener conto del fatto che a legislazione vigente se la spesa per pensioni 2017 ha viaggiato attorno ai 264 miliardi, ed è prevista in crescita di 22 miliardi (+8,3%) entro il 2020, quando arriverà a quota 286 miliardi.
Ieri il ministro Pier Carlo Padoan aveva in mente quella curva quando ha affermato, a Bruxelles, che sarebbe «un gravissimo errore» abolire quella riforma, «uno dei pilastri del sistema». Al massimo, ha aggiunto Padoan, si può pensare a qualche correzione.
Se guardiamo dentro il famoso articolo 24 del Dl 201/2011 incontriamo sei voci principali di interventi cui corrispondono, in relazione tecnica, i risparmi anno per anno. Quest’anno le nuove regole sui pensionamenti anticipati (che superano il precedente schema di quote) valgono 10,9 miliardi, la nuova vecchiaia delle donne e il nuovo anticipo per gli autonomi 2,8 miliardi, il “pro-rata” contributivo 200 milioni, dalla perequazione vengono 4,7 miliardi e dalle nuove aliquote per autonomi e fondi speciali arrivano altri 1,5 miliardi. Totale 19,9 miliardi di minor spesa. Risparmi che l’anno prossimo salgono per arrivare attorno ai 22 miliardi nel 2020. Poi la curva scende, con risparmi attorno allo 0,8% del Pil nel 2030, per azzerarsi nel 2045, quando ai minori pensionamenti corrispondono assegni più pesanti.
Insomma, toccare ora quell’impianto significa depotenziarlo nel momento di massima efficacia. E quei risparmi già scontano gli interventi per le otto salvaguardie-esodati. Non solo. Se per esempio cancellare la Fornero significasse cancellare anche le sue flessibilità, ecco allora cosa accadrebbe per esempio a un lavoratore che ha iniziato a versare contributi nel gennaio 1996: con le regole attuali l’anno venturo, a 64 anni con 20 anni di contributi può andare in pensione se il suo assegno è 2,8 volte superiore al minimo (1.400 euro lordi, 1.150 netti). Con il ritorno alla Maroni dovrebbe lavorare 35 anni.
Bisogna aspettare le proposte concrete per fare stime più precise d’impatto, e c’è da aspettarsi che gli interventi saranno accompagnati da coperture precise. Il ritorno al pre-Fornero non cancellerebbe invece lo stabilizzatore automatico che aggancia i requisiti di pensionamento alla speranza di vita, strumento già preso di mira negli ultimi mesi e che ha portato a una deroga di alcune categorie di gravosi dallo scatto del 2019 a 67 anni.
La sfida sulle pensioni sarà come sempre campale: su oltre 16 milioni di pensionati sono 6,2 milioni quelli che hanno un assegno attorno ai 5-600 euro. E anche su questo fronte non mancano proposte di adeguamento verso l’alto che avrebbero costi ulteriori da sostenere. Nella messa a punto delle proposte programmatiche definitive i partiti dovranno tener conto del fatto che a legislazione vigente se la spesa per pensioni 2017 ha viaggiato attorno ai 264 miliardi, ed è prevista in crescita di 22 miliardi (+8,3%) entro il 2020, quando arriverà a quota 286 miliardi.
Davide Colombo – Il Sole 24 Ore – 9 gennaio 2018