L’economia per svilupparsi, si dice, ha bisogno anche di una sostenuta mobilità sul mercato del lavoro. È finita l’era del posto fisso. Solo che il sistema pensionistico fa poco per agevolare chi cambia lavoro. L’esempio più eclatante è quello delle ricongiunzioni onerose, un pasticcio che si trascina da più di cinque anni senza che nessun governo, nonostante le solenni promesse, abbia risolto la questione.
Il risultato è che ogni anno migliaia di lavoratori non riescono ad andare in pensione per il semplice motivo che, avendo fatto lavori diversi con contributi versati in parte all’Inps e in parte ad altri enti, non possono sommarli gratuitamente ma devono fare la «ricongiunzione onerosa», cioè a pagamento, presso l’ente che dovrebbe liquidare loro la pensione finale e che per farlo chiede un conto salato (da decine di migliaia a somme che superano i centomila euro, secondo i casi) perché in pratica il calcolo è simile a quello del riscatto della laurea a fine carriera. Solo che, a differenza dell’Università, qui i contributi sono stati versati e dunque è come pagarli due volte. Molti quindi rinunciano, come documenta il patronato Inca-Cgil, perdendo parte dei versamenti che vengono incamerati dagli enti (i cosiddetti contributi silenti). Dalla commissione Lavoro della Camera, dove sono state presentate numerose proposte di legge (tra queste anche quella del presidente Cesare Damiano), Maria Luisa Gnecchi (Pd) annuncia che nei prossimi giorni verrà chiesta un’audizione all’Inps sul tema mentre Cgil, Cisl e Uil sono in pressing su Giuliano Poletti. Tanto più che lo stesso ministro del Lavoro, in Parlamento, ha assicurato la volontà del governo di intervenire, dopo che un emendamento alla legge di Stabilità 2016 non è passato perché la Ragioneria generale dello Stato chiedeva adeguate coperture. Ma vediamo da cosa nasce il problema.
Fino al 2010 la ricongiunzione dei contributi versati in diversi enti era gratuita quando gli stessi erano ricongiunti presso l’Inps mentre era a pagamento presso l’Inpdap (dipendenti pubblici) o altri enti che assicuravano un rendimento maggiore. Insomma c’era una logica: se ci guadagni è giusto che paghi la differenza, altrimenti no. Ma nel 2010 con la famigerata legge 122 la ricongiunzione divenne onerosa anche presso l’Inps. Si trattò di un blitz del governo Berlusconi che, costretto da una sentenza della Corte europea di giustizia ad aumentare a 65 anni l’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego, temeva una fuga di tutte le lavoratrici pubbliche che avevano contributi anche nel privato, all’Inps, dove l’età di pensionamento era ancora a 60 anni. Con la legge di Stabilità 2012 il governo Monti corresse parzialmente la norma, consentendo il «cumulo» (senza pagare) ma solo per l’accesso alla pensione di vecchiaia e a patto che il lavoratore non avesse già raggiunto i 20 anni di contribuzione in uno degli enti in cui aveva versato. Il cumulo, anche se tecnicamente diverso dalla ricongiunzione, assicura lo stesso importo di pensione e quindi non si perdono contributi. Come invece accade ancora. «Ad oggi, infatti, — sottolinea Gnecchi — sono tuttora esclusi migliaia di lavoratori che potrebbero andare in pensione, ma non possono farlo solo perché hanno più di 20 anni in una gestione, quando è evidente che a 66 o 67 anni ciò sia normale».
A ottobre 2015 un emendamento alla legge di Stabilità caldeggiato da Poletti era corredato da una stima dell’Inps che quantificava in un miliardo e mezzo il costo complessivo, dal 2016 al 2025, dell’eliminazione del vincolo dei 20 anni, prevedendo che i lavoratori coinvolti dal cumulo sarebbero stati più di 300 mila. Stime che però sono state ritenute troppo prudenti dalla Ragioneria e la modifica è così rimasta nel cassetto. Ora Gnecchi e Damiano tornano alla carica. «Consentire il cumulo anche a chi ha più di 20 anni di versamenti presso un ente è il minimo che si possa fare — dice Gnecchi —. Ma sarebbe giusto anche consentire l’operazione non solo ai fini della pensione di vecchiaia ma anche per quella di anzianità, considerando tra l’altro che ormai ci vogliono più di 42 anni di contributi».
Enrico Marro – Il Corriere della Sera – 13 marzo 2016