Non una vera pensione di garanzia, ma una rete di misure di sicurezza per assicurare ai giovani “contributivi” un assegno minimo di circa 650-680 euro, maggiorazioni sociali comprese, e la possibilità uscire prima dei 70 anni di età e con 20 anni di contributi avendo maturato un trattamento pari a 1,2 volte l’assegno sociale invece delle 1,5 volte attualmente previste. È questa la proposta che il Governo ha messo sul tavolo del confronto con i sindacati per posare con la legge di Bilancio una sorta di prima pietra nel cammino che dovrà portare nella prossima legislatura alla nascita di una autentica pensione contributiva di garanzia. Che però non convince troppo il presidente dell’Inps, Tito Boeri.
La soglia del “minimo Inps” per usufruire di un uscita più flessibile verrebbe dunque abbassata dall’1,5 all’1,2 e, allo stesso tempo, la cumulabilità tra pensione contributiva e assegno sociale (448 euro) verrebbe operativamente ripristinata e aumentata rispetto a quanto previsto originariamente dalla legge Dini dal 30% al 50 % (224 euro). La cumulabilità di un terzo dell’assegno sociale era infatti rimasta sostanzialmente sulla carta per gli effetti scaturiti dalla riforma Fornero. In questo modo i giovani interamente contributivi (gli assunti dopo il 1996) tra 20-30 anni vedranno irrobustirsi l’assegno che invece di rimanere sotto i 500 euro mensili salirebbe abbondantemente sopra i 600 euro fino ad arrivare a quasi 700 euro.
I sindacati hanno accolto con favore la proposta ma hanno anche rilanciato chiedendo di arricchire la rete di sicurezza. Che però non ha ancora la certezza di essere inserita nella prossima manovra. Anche perché il nodo risorse non è stato ancora completamente sciolto. Nella prima fase di attuazione l’intervento costerebbe meno di 200 milioni l’anno mentre a regime si salirebbe a circa 1,5 miliardi. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha confermato che nel corso del round di ieri è stato «affrontato il tema dei giovani che andranno in pensione tra 20 anni» senza sbilanciarsi su possibili interventi. Il capo del team economico della presidenza del Consiglio, Marco Leonardi, che ha partecipato all’incontro insieme a Stefano Patriarca (sempre del team economico di Palazzo Chigi), si è mostrato più prudente: «Non è un punto urgente».
Della questione si tornerà a parlare in uno dei prossimi incontri. L’obiettivo è di giungere a soluzioni il più possibile condivise prima del varo della manovra. Il calendario prevede che esecutivo, Cgil, Cisl e Uil tornino a vedersi il 5 settembre sui temi del lavoro, il 7 e il 13 settembre sulla previdenza. Poletti si è mostrato ottimista e ha parlato di «clima positivo». Ma i sindacati sono rimasti perplessi su alcuni punti e, soprattutto, hanno espresso tutta la loro insoddisfazione per la resistenza del Governo ad affrontare quella che per loro è una priorità: lo stop all’aumento automatico dell’età pensionabile nel 2019 per effetto dell’adeguamento all’aspettativa di vita. Anche il tema dell’accesso più agevole delle donne all’Ape social è stato rinviato al prossimo round in cui il Governo illustrerà l’idea di un bonus contributivo di 2-3 anni.
Le posizioni sono molto vicine sulle ipotesi d’intervento sulla previdenza complementare presentate ieri dal Governo sempre in vista della manovra. Prima fra tutte quella che punta a rendere più appetibile la Rita (Rendita integrativa temporanea anticipata) svincolandola completamente dall’Ape e usufruibile a tutti gli iscritti alla previdenza integrativa già a partire dal sessantatreesimo anno di età anziché dai 63 anni e 7 mesi ora previsti con il collegamento obbligato all’Anticipo pensionistico. Quello a cui sta pensando il Governo è un vero restyling della Rita con l’eliminazione anche del vincolo della cessazione del rapporto di lavoro che renderebbe ancora più accessibile la rendita ponte. Tra le ipotesi sul tappeto ci sarebbe anche quella di una sorta di norma ad hoc per le ristrutturazioni aziendali con la possibilità di utilizzare la Rita come incentivo all’esodo, assorbendo anche quote di Tfr già maturato, con una tassazione più vantaggiosa (15%) rispetto a quella dell’incentivo classico. È probabile anche l’armonizzazione della tassazione sui rendimenti dei fondi pensione dei lavoratori privati a quelli pubblici .
Marco Rogari – Il Sole 24 Ore – 31 agosto 2017