Pensione flessibile, ma senza costi per il bilancio pubblico e dunque con penalizzazioni economiche consistenti sul trattamento degli interessati. A poco più di un mese dal momento in cui il governo dovrà approvare la legge di Stabilità, il dossier previdenza è sul tavolo di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia, anche se sul tema c’è molta prudenza.
Non mancano nell’esecutivo le voci favorevoli ad un aggiustamento delle regole attuali, ritenute troppo rigide e dunque quanto meno da attenuare. Per un esito di questo tipo spingono poi i sindacati ed anche, pur se meno rumorosamente, una parte del mondo delle imprese. Qualcuno spera che requisiti un po’ più elastici possano potare vantaggi anche sul piano dell’occupazione giovanile. Ieri è intervenuta nel dibattito Elsa Fornero, che da ministro del governo Monti ha legato il proprio nome alla drastica riforma del 2011. Secondo Fornero quel provvedimento fu adottato in una situazione di emergenza assoluta che oggi è «in parte superata». Per cui potrebbe essere ragionevole «recuperare un po’ di flessibilità».
LA PROPOSTA IN PARLAMENTO
Flessibilità vuol dire naturalmente permettere ai lavoratori di mettersi a riposo qualche anno prima rispetto agli attuali requisiti per la vecchiaia (66 anni e 3 mesi di età per gli uomini, 63 e 9 mesi per le donne del privato) accettando però un importo di pensione un po’ più basso. In campo ci sono alcune proposte. Una parlamentare elaborata nel 2013 da un altro ex ministro, Cesare Damiano, insieme all’attuale sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, prevede un taglio dell’assegno pari al 2 per cento per ogni anno di anticipo. Una soluzione che recentemente l’Inps ha giudicato troppo costosa per le casse dello Stato. L’altra possibilità è il ricalcolo dell’intera pensione con il metodo contributivo, in pratica un’estensione della possibilità offerta fino a fine 2014 alle lavoratrici (che in base a questo schema potevano uscire anche a 57 anni con la cosiddetta “opzione donna”). Fornero ritiene quest’ultima soluzione troppo penalizzante per gli interessati schierandosi di fatto per una via di mezzo: una decurtazione del 3-3,5 per cento l’anno, che a suo avviso sarebbe «un criterio non troppo lontano dall’equità attuariale».
In realtà la riduzione dell’assegno derivante dall’applicazione del sistema contributivo non è uguale per tutti, dipendendo dalla effettiva dinamica di carriera del lavoratore in questione. Mediamente il taglio può aggirarsi intorno al 15-20 per cento ma anche sfiorare il 30 nei casi più sfavorevoli. Il paradosso è che nell’immediato, dal punto di vista dei conti pubblici, anche un meccanismo rigido di questo tipo potrebbe non essere sufficiente, come dimostrano le resistenze della Ragioneria generale dello Stato a prolungare l’opzione donna: questo perché la compensazione tra maggiori uscite verso la pensione e importi ridotti dell’assegno si ha nel medio periodo, mentre l’effetto negativo di cassa si manifesta subito.
MASSIMA CAUTELA
In ogni caso il governo è orientato alla massima cautela. Il menu della legge di Stabilità è già molto impegnativo e sul fronte europeo l’Italia punta a massimizzare i risultati politici delle riforme approvate o comunque messe in cantiere. In questo quadro dare l’idea di smontare – anche solo parzialmente – un impianto rigoroso come quello della legge Fornero e di tornare ad abbassare l’età pensionabile potrebbe rivelarsi una mossa controproducente. Dunque se si farà qualcosa lo schema sarà piuttosto rigido ed il contributivo è lo strumento che meglio si presta. Eventualmente per attenuarne gli effetti sui singoli e renderlo più appetibile si potrebbe ripescare l’idea messa a punto dall’ex ministro Giovannini di “prestito pensionistico”, ovvero un meccanismo con cui una parte delle somme percepite negli anni che mancano alla data normale di pensionamento verrebbe poi rimborsata successivamente dallo stesso lavoratore.
IL Messaggero – 31 agosto 2015