Giulia Crepaldi, il Fatto alimentare. Spesso dimentichiamo qual è il ruolo dei lavoratori stranieri nel mantenere vitali alcuni settori produttivi italiani che, senza il loro contributo, entrerebbero in forte crisi o addirittura morirebbero. Se la presenza – e lo sfruttamento – dei migranti nei campi di pomodori e negli aranceti del Sud (Il Fatto Alimentare ne ha parlato ad esempio quie qui) è un fatto che ciclicamente torna a far parlare di sé, spesso ci si dimentica dell’importanza di questi lavoratori nell’allevamento e nella pastorizia. Il tema è stato al centro di un incontro dal titolo significativo “Il latte dei migranti”, tenuto alla manifestazione promossa da Slow Food Cheese 2017,
La produzione del Parmigiano Reggiano dipende in gran parte da immigrati indiani di religione Sikh, molti dei quali ormai hanno cittadinanza italiana, che rappresentano il 60% dei lavoratori impiegati negli allevamenti di vacche da latte in Emilia Romagna. Si occupano di allevamento intensivo dei bovini anche i Sikh del Piemonte, dove si trova la seconda comunità più grande d’Italia.
I lavoratori stranieri non sono una risorsa solo per l’allevamento in stalla, ma anche – e soprattutto – per la pastorizia, un settore produttivo che ha visto un continuo abbandono da parte delle nuove generazioni locali: isolamento, ambienti aspri e orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri. La pastorizia ha quindi trovato nell’immigrazione un’ancora di salvezza.
Secondo i risultati dello studio TRAMed, condotto da Michele Nori, esperto di realtà pastorali mediterranee dell’Istituto universitario europeo di Firenze, in Piemonte, Valle d’Aosta e Veneto gli stranieri rappresentano il 70% della forza lavoro del settore. Si tratta prevalentemente di lavoratori di origini rumene e moldave impiegati negli allevamenti da carne e da latte del Piemonte, di rumeni nell’allevamento di animali da carne in Veneto e di pastori marocchini e, ancora una volta, rumeni occupati nella filiera della Fontina in Valle d’Aosta. Va ricordato, però, che il rapporto di lavoro per questi pastori migranti è spesso informale e un salario di mille euro al mese rimane ancora un miraggio.
Il fenomeno riguarda tutta i paesi dell’area mediterranea e in alcune zone ha raggiunto dimensioni ancora più estreme. Come in Abruzzo, dove il 90% dei pastori è straniero – macedone, rumeno o albanese – e l’ingresso dei lavoratori immigrati nel settore risale agli anni Ottanta. Proprio in quegli anni si è verificato, secondo la ricercatrice Laura Fossati, “un crollo drammatico” nel settore “a causa della mancanza di ricambio generazionale”. Solo grazie ai migranti la pastorizia sta finalmente vedendo segnali di ripresa.