Ma anche le mosse di Lactalis, dalla sortita americana all’Opa appena fallita, non fanno onore alla famiglia Besnier e rovinano una volta di più il profilo della multinazionale alimentare
di Ferruccio de Bortoli. Chi ha inventato lo slogan «Se non Opa, quando?» dovrebbe rileggersi Flaiano e astenersi dalle parafrasi. L’offerta pubblica di Lactalis sui titoli Parmalat ha raccolto per ora solo l’1,85% del capitale. Un fallimento. Ai consiglieri di Parmalat, che hanno giudicato inizialmente congrua la stima di 2,8 euro per azione, poi corretta in corsa a 3, forse varrebbe la pena di suggerire di considerare meglio i valori in gioco. O di meditare qualche gesto di maggiore indipendenza, anche tenendo conto della storia tormentata del gruppo e delle inchieste della magistratura che si sono succedute dalle parti di Collecchio. Il gruppo francese può salire comunque all’89,75% della Parmalat e non è escluso che superi il 90%, comprando qualcosa sul mercato e facendo scattare l’Opa residuale, con un prezzo però che può essere deciso dalla Consob. C’è tempo fino al 4 aprile. Il possibile ritiro dalla Borsa del titolo Parmalat, trova l’ostacolo dei fondi Amber e Gam che venderanno cara la residua pelle di azionisti. È il loro mestiere di fondi attivisti. Il nodo che può spostare le valutazioni è quello dell’esito di una causa contro Citigroup, promossa ancora dal commissario straordinario Enrico Bondi.
Emmanuel Besnier
Il proprietario francese, Emmanuel Besnier, è personaggio volitivo, schivo e misterioso. La Borsa non fa per lui. Avrà certo delle qualità ma non quella della trasparenza. Ha una passione per le operazioni con parti correlate, in cui è venditore e acquirente, come ha dimostrato la generosa acquisizione da parte di Parmalat della Lactalis americana (Lag), il cui strascico penale non si è ancora risolto. Prezzo: un miliardo, poi scontato a 770 milioni, in seguito alla nomina del Tribunale di Parma di un commissario ad acta, nella controversia con il fondo Amber. Mossa indispensabile e precipitosa per far fronte all’indebitamento della casa madre e finanziata con il tesoretto (1,4 miliardi) accumulato dalla gestione commissariale.
Tra politica e territorio
Il gruppo di Laval, leader nei formaggi, ha il dono della rapidità. Al limite della spregiudicatezza. È stato tempestivo nel lanciare, nel 2011, un’offerta da 4 miliardi, ottenendo l’83% di quello che restava dell’impero di Tanzi. I francesi avevano già acquisito, nel 2006, la Galbani dal fondo Bc Partners. L’operazione Parmalat fu benedetta da Berlusconi e da Sarkozy. Pochi mesi prima di quel sorriso beffardo del presidente francese – condiviso con la Merkel – che segnerà il destino del governo del Cavaliere.
I tempi di Calisto Tanzi (condannato a 17 anni e 5 mesi) e del suo direttore finanziario Fausto Tonna (7 anni e 9 mesi, non definitivi) sembrano preistoria. Un crac da 14 miliardi. Forse nessuno ricorda più che la multinazionale alimentare di Parma, con il nome della città nel suo marchio (ai Besnier ora importa poco) era l’ emblema di un orgoglio imprenditoriale tutto padano. Un primato mostrato con il petto gonfio, come i bilanci. Annunciato con la voce padronale degli imbonitori di Paese capaci di far sognare gli spettatori davanti a scenari di cartapesta. Falsi come le tante facce di coloro che applaudirono le “magie di Calisto”, accorsero alla sua corte e, altrettanto magicamente, scomparvero al momento dello scoppio della bolla.
La sconfitta di un sistema
Una storiaccia italiana senza la passione del melodramma verdiano, senza nemmeno quella genialità del crimine finanziario che rende i colpevoli sinistramente simpatici. Nella città con il monopolio riconosciuto della bontà e della genuinità nel proprio nome, e che ospita l’authority alimentare europea, non ci furono imprenditori in grado di subentrare all’ «amico Calisto». Non ne arrivarono dalla filiera dell’agroalimentare, della quale andiamo tanto fieri. Né le banche – Intesa Sanpaolo e Mediobanca in particolare – furono in grado di organizzare cordate credibili, come avvenne, per esempio, nella privatizzazione di Sme con Benetton. L’integrazione con Granarolo e le cooperative fallì miseramente. Anche l’interesse di Ferrero si scontrò con la clausola prevista dallo statuto della Parmalat, tornata in Borsa nel 2005, che riservava agli azionisti, ex detentori dei bond (recuperarono in media circa il 60 per cento del loro investimento), la metà dei futuri utili. Una sconfitta di tutto il sistema industriale e finanziario italiano. Modestia di capitali propri, miopie strategiche, l’ansia di realizzare l’affare scucendo poco o scambiando carta. E la perniciosa convinzione che i rapporti con la politica (come avvenne ai tempi di Tanzi vicino a De Mita) fossero sempre risolutivi. L’arrivo dei francesi assomiglia a una punizione dantesca.
Parmalat è stata, al netto delle sue vicende giudiziarie, il paradigma dei vizi e delle virtù italiche. Oggi si può dire – senza il sorrisino di Sarkozy – anche di quelli francesi. Ma i vincitori sono loro. La storia di un’impresa, pur innovativa nei prodotti, che incanta – ai tempi di Tanzi – classi dirigenti e professionali disposte a credere a tutto pur di mostrare l’orgoglio tenorile di appartenere a un territorio di eccellenze. L’enorme e teorica liquidità che si dissolve nel giro di una notte. L’omertà che poi sfocia nell’oblio immediato: «Calisto, chi?». Il commissario che ristruttura, ripaga in parte gli obbligazionisti delle loro perdite, riporta il titolo in quotazione e forse coltiva, sbagliando, l’idea di una public company, assomiglia a un personaggio di Sciascia a latitudine errata. E i riservati e cinici Besnier, che si precipitano sulla preda incustodita con fredda determinazione, sarebbero piaciuti a Hugo. Ma forse non c’è poi tanto romanzo. Solo una grigia commedia degli interessi. Banale nella sua ripetitività.
Economia Corriere della Sera – 28 marzo 2017