Un po’ come i cantanti che vincono un’edizione di Sanremo e poi scompaiono dalla scena, il problema dei pagamenti al rallentatore alle imprese che lavorano con la Pubblica amministrazione sembra aver esaurito la propria fortuna mediatica. Il dibattito si è infiammato fra 2013 e 2015, e ha prodotto varie puntate di provvedimenti sblocca-debiti che hanno mobilitato 50 miliardi di euro e avviato una complicata architettura di prestiti da restituire in 30 anni. Ma anche oggi, lontano dalle discussioni in Parlamento e dai dibattiti televisivi, si consumano le lunghe attese delle aziende che inviano le loro fatture agli enti pubblici: un problema non da poco, visto che ogni anno l’acquisto di beni e servizi vale oltre 120 miliardi, articolati in 20 milioni di operazioni con migliaia e migliaia di imprese.
Nell’anno domini 2017, quattro anni dopo l’emersione del problema, il 62% degli enti pubblici (206 su 333, mentre di altri 16 l’indicatore non è disponibile) paga strutturalmente in ritardo rispetto alla scadenza scritta nella fattura, e nei casi più gravi continuano a essere parecchie centinaia i giorni che si inanellano prima del bonifico. E, fatto curioso, a denunciare il fenomeno sono le stesse amministrazioni pubbliche.
«Denunciare», per la verità, è una parola grossa. Più di un mese fa il ministero dell’Economia aveva chiesto a tutti gli enti pubblici di inviare i propri dati per costruire il «cruscotto dei pagamenti» nella banca dati della pubblica amministrazione (Bdap), il nuovo ambizioso portale che punta a mettere online tutti i numeri chiave della Pa. Il traffico dei numeri però finora non ha prodotto nulla, e l’ultimo “cruscotto” esistente resta quello aggiornato all’aprile 2014. Preistoria.
Caso per caso
Per ricostruire un quadro complessivo, allora, bisogna avventurarsi fra i siti dei singoli enti pubblici, che nella sezione dedicata all’«amministrazione trasparente» devono riportare l’indicatore di tempestività dei pagamenti per misurare ogni tre mesi il ritardo (o l’anticipo) medio fra la scadenza delle fatture (30 giorni per obbligo di legge, tranne le eccezioni che raddoppiano i termini) e il pagamento effettivo ai fornitori. Le cifre riportate in queste pagine sono tratte dai siti istituzionali di 349 amministrazioni fra ministeri, regioni, asl, province, città metropolitane e comuni capoluogo di provincia: il periodo monitorato sono i primi tre mesi del 2017, tranne i casi in cui sono già disponibili i dati del secondo trimestre da pubblicare entro il 30 luglio (le eccezioni, non molte, con aggiornamenti più datati sono indicate in nota). In 206 amministrazioni, il 62% del totale, l’indicatore registra il fatto che il pagamento arriva mediamente dopo la scadenza, con un ritardo medio che oscilla fra i 28 giorni dei ministeri e i 71,5 giorni delle Asl. Si spiega anche così il fatto che i tanti provvedimenti sblocca-debiti hanno scalfito ma non azzerato la mole dell’arretrato, che a fine 2016 vale 64 miliardi di euro secondo Bankitalia. Nelle situazioni più gravi le attese si fanno bibliche. L’Asl di Roma 6, che copre il quadrante sud-est dell’ex provincia di Roma, spiega di aver chiuso il 2016 pagando in media con 687 giorni di ritardo, anche a causa di un drammatico ultimo trimestre in cui sono arrivate alla cassa fatture scadute in media 1960 giorni prima (cinque anni abbondanti). Se ci si sposta a ovest della Capitale si incontra l’Asl Roma 3, a Fiumicino e dintorni, dove nei primi tre mesi dell’anno sono state pagate fatture scadute in media da quasi un anno (310 giorni per la precisione), mentre nell’azienda sanitaria di Napoli centro il ritardo medio sfiora i 257 giorni e a Catanzaro si ferma un filo sotto i 229 giorni.
Ministeri lenti
Ma non è solo questione di Asl. I numeri sono meno eclatanti, ma nell’elenco sterminato dei pagatori lenti si incontra anche l’ampia maggioranza dei ministeri (71,4%): nelle stesse stanze del Palazzo delle Finanze, dove si scrivono le leggi contro i ritardi dei pagamenti, si accumulano fatture inevase, con un ritardo medio di quasi 13 giorni che certo indica una patologia parecchio meno grave rispetto ad altre amministrazioni, ma stride con il ruolo del Mef di garante delle regole. La malattia del ritardo si insinua fin nel cuore del sistema politico, a Palazzo Chigi, dove i tempi di pagamento sono più o meno analoghi a quelli di Via XX Settembre: al ministero del Lavoro, invece, il calendario si allunga fino a registrare un ritardo medio di 66 giorni, di poco superiore a quello calcolato alla Difesa (64 giorni), mentre il terzo scalino del podio ministeriale è occupato dalle Infrastrutture (35 giorni). In questo panorama sconfortante spiccano invece per contrasto i numeri del ministero dell’Ambiente, che paga mediamente con 20 giorni di anticipo e guida la pattuglia dei «virtuosi» formata anche da Giustizia (17 giorni di anticipo), Esteri (13 giorni) e Istruzione (11 giorni).
Buoni e cattivi
Già, perché accanto alle maxi-attese è la variabilità dei comportamenti da ente a ente a rappresentare un dato cruciale nell’analisi del fenomeno. In termini semplici: perché le regioni Calabria e Campania fanno aspettare mediamente 50 giorni oltre i termini della fattura, mentre Umbria e Lombardia riescono in genere a liquidare tutto con quasi un mese di anticipo? Che cosa blocca per lunghi mesi le procedure nelle province di Crotone, Vibo Valentia o Verbania, oppure nei comuni di Napoli, Andria o Potenza, quando negli enti omologhi di Treviso e Taranto, di Verona, Trento o Genova tutto fila liscio in tempi rapidi? Come fa l’azienda sanitaria Bassa Friulana ad agguantare la palma di miglior pagatore di inizio 2017, con il record di 33 giorni abbondanti di anticipo, quando è un’altra Asl, quella di Roma, a registrare la performance peggiore della Pa?
Senza controllo
La classica divisione fra Nord e Mezzogiorno ha un peso, perché fra le amministrazioni territoriali il 56% dei ritardatari è nel Centro-Sud e il tasso di concentrazione cresce al 65% se si guarda solo a chi mediamente impiega almeno 30 giorni più del previsto. Ma la geografia del problema è molto più frastagliata e non si lascia rinchiudere nel solito cliché. Il fatto è che nonostante le molte norme che hanno infittito la Gazzetta Ufficiale nel tentativo di imbrigliare i pagamenti, le tante prassi delle singole amministrazioni continuano ad avere libero sfogo e a spiegare le distanze a volte siderali che separano i comportamenti degli uffici. A mancare, ancora una volta, è un controllo accentrato e immediato, senza il quale minacce come quelle del danno erariale per gli interessi aggiuntivi generati dai ritardi restano lettera morta. Certo, i contratti non possono più bloccare la mora a carico delle amministrazioni troppo lente, ma in molti casi si preferisce o si è costretti a pagare di più invece che pagare più in fretta: in un circolo vizioso che aumenta i costi a carico dei contribuenti.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 24 luglio 2017