La Regione cancella tutto, il nosocomio padovano resta così com’è. «Il tavolo si chiude qui. Le comunicazioni del Comune ci sono state, sono rilevanti e condizionanti. Il Tavolo di coordinamento da oggi cessa di esistere, perché viene meno l’oggetto del protocollo. Ora c’è la necessità che il Comune revochi le sue delibere.
Formalmente il dottor Dario cessa la sua attività come stazione appaltante e questo è fondamentale anche per evitare ulteriori spese. Quindi si va a chiudere tutta la procedura, dopodiché si vedrà». Con queste parole ieri, a mezzogiorno, il governatore Luca Zaia ha posto fine definitivamente alla travagliata epopea del nuovo ospedale di Padova, quello che tutti volevano, dal Comune (amministrazione Zanonato) alla Regione, dall’università, all’azienda ospedaliera, «futura eccellenza veneta, italiana, europea» infrantasi contro il granitico niet del nuovo inquilino di Palazzo Moroni, il leghista (come Zaia) Massimo Bitonci.
Il nuovo sindaco della Città del Santo, varcato il portone di Palazzo Balbi, sapeva bene a cosa andava incontro: «Qui il Comune è un po’ contro tutti…» e, nonostante le rassicurazioni di Zaia («Questo non è un tribunale dove uno porta una tesi e tutti gli altri dicono, “vediamo di condannarlo”, vogliamo solo capire…»), è stato proprio così. Ma pur in splendida solitudine, attaccato a destra e a manca, Bitonci è stato irremovibile nel sostenere il suo progetto del «nuovo sul vecchio», com’è stata ribattezzata la radicale rivisitazione dell’attuale polo di via Giustiniani, e la sua tenacia è stata come un cavatappi capace di forare un po’ alla volta la barca del «nuovo sul nuovo» a Padova Ovest e far colare a picco tutti quelli che ci stavano sopra. Perché dall’evoluzione acrobatica dei veti incrociati, dopo 7 anni di scartoffie, esce di certo sconfitto Zaia, che si vede sfilato da un collega di partito (della corrente amica, per giunta) il fiore all’occhiello della sua campagna per la rielezione nel 2015, ma anche il rettore Giuseppe Zaccaria, che sul nuovo ospedale era andato all-in per lo sviluppo della didattica e della ricerca dell’ateneo (e, con lui, tutti i vertici dei dipartimenti di Medicina), il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Claudio Dario, che resta col cerino in mano di una struttura «assolutamente inadeguata» per i tempi che corrono, i privati della Bovis Lend Lease, che avevano già pronto un project financing da 650 milioni, ma un po’ pure lo stesso Bitonci, che nel trionfare sul no al nuovo ospedale ha però dovuto incassare lo stop alla rivitalizzazione del vecchio: resterà tutto così com’è. La Regione (su questo i tecnici sono stati chiarissimi) non intende infatti inerpicarsi in un’operazione dai costi esorbitanti, dai tempi incerti e dalla logistica improbabile, come hanno spiegato nel corso del summit sia l’architetto Antonio Canini, dirigente dell’Edilizia ospedaliera, che il direttore generale Claudio Dario. Il primo ha puntato il dito contro le difficoltà connesse ad un progetto per stralci, in cui si demolisce e man mano si ricostruisce in mezzo ai malati, e sottolineato la frammentarietà delle proprietà, i molti vincoli che insistono sull’area, la carenza di spazi che imporrebbe lo sviluppo in altezza con torrioni di quattordici piani, il collasso viabilistico, il rischio sismico, perfino il pericolo black out. Il secondo ha messo in fila un po’ di numeri: «La costruzione del “nuovo sul vecchio” costerebbe 540 milioni, quella del “nuovo sul nuovo” 541, dunque sarebbero equivalenti – ha spiegato Dario – la differenza importante sta nei costi di urbanizzazione, 289 milioni per il “nuovo sul vecchio”, tra demolizione, ricostruzione e parcheggi, e 50 milioni per il “nuovo sul nuovo”. Per non dire dei tempi: 18 anni nel primo caso, 9 nel secondo». Uno scenario contestato da Bitonci, che ha evidenziato la mancanza delle spese per gli espropri e le bonifiche a Padova Ovest (stimati in 50 milioni) e ribadito le ragioni della sua ostilità al progetto: «Verrebbe consumato nuovo suolo, l’area è a rischio idrogeologico, si finirebbe per creare in via Giustiniani un buco nero preda del degrado facendo morire i negozi tutt’attorno. Spedendo in periferia l’ospedale, poi, questo perderebbe la sua funzione di campus a servizio dell’università».
Le due visioni erano inconciliabili e tali sono rimaste, nonostante Dario abbia replicato che «il buco nero» si potrebbe evitare spostando in via Giustiniani i posti letto dell’ospedale Sant’Antonio, sommati a quelli che non troverebbero spazio a Padova Ovest. Il rettore Zaccaria ha lasciato Palazzo Balbi furente, il direttore generale Dario si è detto «molto preoccupato» dalla mission di «garantire non solo la massima sicurezza e assistenza, ma anche la ricerca e la didattica, oltre che un futuro a questa struttura che deve rimanere un’eccellenza italiana». Laconico il commento in chiusa di Zaia, che per il momento non prende neppure in considerazione l’ipotesi di rivolgersi ad un Comune dell’hinterland o magari alla Provincia, che ha messo a disposizione alcune aree di sua proprietà: «Il nuovo ospedale di Padova ormai è tramontato, la storia finisce qui. D’altronde non potevamo andare avanti facendo a braccio di ferro col Comune, che ci dà come unica alternativa un progetto vecchio di dieci anni, difficoltoso e costoso, e può far leva sui veti urbanistici. Senza contare che è una pazzia pensare di realizzare un’opera del genere senza il consenso di chi rappresenta i cittadini». Argomento che Bitonci ha brandito più volte come uno spadone: «Ho vinto le elezioni anche su questo. I padovani sono con me».
Marco Bonet – Il Corriere del Veneto – 29 luglio 2014
Il primario con i neonati dentro lo studio e l’ascensore troppo stretto per le barelle. «Qui tutti i giorni sono di ordinaria follia»
La notizia, come tutte le cattive notizie, corre veloce tra le corsie e gli ambulatori dell’ospedale di via Giustiniani. Alle 14 tutti sanno già che non ci sarà nessuna nuova cittadella della salute e nemmeno si rifarà da capo questa. Si respira aria di sconfitta, ma anche di rabbia. «Le conseguenze? — sbotta il figlio di un degente anziano — Beh mio padre, ricoverato in Urologia, viene dimesso cinque giorni dopo aver avuto un ictus, perchè deve liberare il letto per altri malati, altri posti non ce ne sono. E nemmeno per la riabilitazione: ci hanno proposto quelli a pagamento in un centro privato, a 110 euro al giorno. Non ce lo possiamo permettere, dobbiamo portarcelo a casa». Un esempio su mille, colpa non di un personale che tra difficoltà di tutti i generi fa i salti mortali per garantire l’assistenza migliore, ma di un complesso che ormai non regge più. Basta fare un giro per i reparti per rendersene conto. Radiologie, Rianimazioni e piastre operatorie non sono concentrate in blocchi unici ma sparse tra la ventina di edifici di cui si compone l’Azienda ospedaliera, oltretutto divisa in due da via Giustiniani. Una frammentazione che implica continui spostamenti di pazienti, personale e materiale tra un padiglione e l’altro: nel 2013 sono stati necessari 155.515 mila trasporti interni, per una spesa di 42 milioni. Altri soldi vengono spesi per togliere gli ammortizzatori alle ambulanze, che sennò non passano sotto il ponte romano che collega la parte est alla ovest.
Dentro è peggio. In Ortopedia spesso spuntano letti in corridoio, occupati anche da persone appena operate, in Neurologia protette da separè. Nello stesso reparto, ristrutturato da poco, i degenti, anche gravi, che dal primo piano devono spostarsi al piano terra per fare la Tac non possono essere sdraiati sulle barelle con le ruote, troppo larghe per entrare in ascensore. Vengono sistemati su quelle da ambulanza. Il Monoblocco va rimesso a norma, non solo per quanto concerne le sale operatorie, ma pure per il rischio sismico e per sistemare gli ambulatori, vecchi. E poi c’è il grande cruccio dell’area materno-infantile. «La Pediatria è nata nel 1952 e non può rispondere alle esigenze attuali — spiega il primario, professor Giorgio Perilongo —. Siamo divisi su cinque padiglioni e i continui spostamenti vanno a scapito della qualità dell’assistenza. Una situazione non più sostenibile». I medici che lavorano al Day Hospital hanno lo studio in Pneumologia; al quarto piano dal soffitto spuntano tubi; il terzo (degenze e ambulatori) sarà restaurato ma non si sa dove spostare i ricoverati; tutte le stanze, da 2 e 4 letti, sono così piccole che i genitori per assistere i loro bambini devono dormire per terra, su materassini. Al Nido la scena sarebbe molto dolce se non fosse paradossale: nello studio del primario, la dottoressa Beatrice Dalla Barba con una mano gestisce computer, telefono e pratiche varie, con l’altra spinge, per far addormentare un neonato, una delle due culle che ospita in ufficio perchè in reparto non c’è più posto. Sono anni che lo denuncia, si sgola, lo scrive su Facebook: invano. Stesso risultato ottenuto dall’«Associazione Pulcino», che riunisce mamme e papà dei bimbi prematuri: in Neonatologia ci sono solo 25 incubatrici, sempre piene. La Radiologia pediatrica ha strumentazioni superate, spesso la Tac si ferma e i bambini sono costretti a passare dagli adulti, come i minori operati in Cardiochirurgia, priva di Terapia intensiva pediatrica. In Ostetricia spesso le gestanti affrontano il travaglio su barelle in corridoio, il Pronto soccorso pediatrico è introvabile (basterebbe una semplice insegna esterna), così come quello della Ginecologia.
«Chi ha deciso di non fare il nuovo ospedale non sa cosa vuol dire curare i malati in un cantiere aperto — afferma il professor Donato Nitti, direttore di Scienze chirurgiche —. Io l’altro giorno ho dovuto eseguire un intevento con un cantiere sopra e uno sotto alla sala operatoria. Dalla scelta della Regione l’Università esce con le ossa rotte, sono costernato». «La nostra è un’eccellenza riconosciuta e premiata a livello internazionale ma la logistica non è all’altezza delle cure prestate — avverte il professor Franco Bassetto, primario della Chirurgia plastica —. Per esempio per i paraplegici con piaghe da decubito ci sono stanze da sei letti e senza bagno: ce n’è uno solo comune a tutta la corsia per gli uomini e uno per le donne. Il Centro grandi ustionati non è sullo stesso piano della Rianimazione perciò i pazienti, fragili e a rischio infezioni, devono fare su e giù in ascensore, anche per essere medicati. Senza contare la carenza di spazi per la didattica». «Io ho dovuto cedere il mio studio ai pazienti e trasferirmi nel seminterrato, che si allaga sempre — rivela il dottor Franco Tosato primario del Pronto soccorso, 220 accessi al giorno, 83 mila l’anno —. Mi adatto. Usiamo i pochi soldi che ci sono per rimettere a posto l’esistente. Noi abbiamo presentato un piano alla direzione per ampliarci». Intanto disagi e assurdità restano: un politraumatizzato, da operare a testa, torace e gamba per esempio, non viene trattato da più specialisti in un’unica sala, ma deve fare la spola tra Neurochirurgia, Chirurgia generale e Ortopedia. Alla faccia della centralità del paziente.
Michela Nicolussi Moro – Corriere del Veneto – 29 luglio 2014