Negli ultimi anni gli scaffali dei supermercati, per non parlare dei negozi biologici e di nicchia, si sono riempiti di cibi “naturali” e “antichi”. Percepiti come un rifugio alimentare rassicurante rispetto al cibo “moderno” e “manipolato dall’uomo”, fonte secondo certe filosofie alimentari di malattie e disturbi di ogni genere, rappresentano un indubbio successo commerciale contemporaneo.
Sono i cereali in genere, ma soprattutto i grani, che qualcuno classifica in buoni e cattivi, dove buono ovviamente fa rima con naturale e antico. Poco importa se i grani teneri “di una volta” in realtà sono varietà che risalgono al massimo a un secolo fa, e quindi dal punto di vista genetico sono modernissimi.
In queste settimane a Padova, presso il Centro Culturale Altinate San Gaetano, è possibile visitare la mostra «FOOD. La scienza dai semi al piatto». Una mostra che indaga sugli aspetti scientifici del cibo quotidiano. Nella prima sala, tutta dedicata ai semi, fanno bella mostra grani di tutti i tipi, e tra questi l’unico che forse si potrebbe legittimamente indicare come “antico” perché il suo genoma non ha subito molte modifiche da quando venne domesticato circa 12.000 anni fa. È il «farro monococco» o Triticum monococcum. Tutti gli altri hanno subito, nei millenni successivi, modifiche e rimaneggiamenti anche profondi del proprio DNA. Basti pensare che il frumento tenero con cui facciamo pane e biscotti non è mai esistito allo stato selvatico.
Circa 8mila anni fa, nella regione compresa tra l’Armenia e il Sudovest del mar Caspio, avvenne un evento genetico quasi “innaturale”: una pianta di farro coltivato inglobò completamente il genoma di un’erba selvatica, l’Aegilops tauschii, per generare una nuova specie non esistente in natura, il «farro spelta», che una serie di modifiche genetiche successive ha trasformato nel nostro amato Triticum aestivum: il grano tenero con cui facciamo pane, torte e pizze. In un normale incrocio il padre e la madre donano al figlio la metà del proprio corredo genetico. Il frumento tenero invece, inglobando tutti i geni di entrambi i genitori, appartenenti a specie diverse, è un vero e proprio mostro genetico che, se vogliamo, di “naturale” ha ben poco.
Nel libro Contronatura (Dario Bressanini e Beatrice Mautino, Rizzoli, 2015) raccontiamo di come ben poco del cibo che mangiamo quotidianamente si possa davvero considerare “naturale” – senza per questo associare a questo aggettivo un significato positivo o negativo –, e di come gli scienziati da tempo sfruttino varie tecnologie per emulare in laboratorio ciò che in natura avviene per caso. Nei negozi specializzati in alimenti “naturali”, negli ultimi anni sta avendo molto successo un prodotto, un cereale, chiamato Tritordeum. Le biotecnologie moderne sono in grado di far avvenire la fusione genetica tra due specie diverse, anche se non troppo lontane geneticamente, per crearne una nuova, replicando quello che è già avvenuto in natura con il grano tenero. E in effetti negli ultimi decenni in alcuni laboratori sono stati creati dei veri e propri “frumenti sintetici” fondendo con successo in provetta i genomi dei progenitori del frumento tenero. A questo punto il passo è breve: perché ci dovremmo limitare a replicare quanto già successo in natura? Possiamo benissimo provare a unire specie che non si sono mai unite in natura.
Ecco allora che un gruppo di scienziati spagnoli ha provato a fondere l’orzo selvatico (Hordeum chilense) con il frumento tenero. Nel 1977 riuscirono a produrre le prime piante fertili di questa nuova specie, che chiamarono Tritordeum dall’unione di piante di due generi diversi: Triticum e Hordeum. Quei primi tentativi furono un successo scientifico – quale scienziato non sarebbe orgoglioso di inventare letteralmente una nuova specie? –, ma non produssero nulla di utilizzabile in pratica, poiché le caratteristiche di quelle prime piante erano assai poco adatte per la coltivazione.
Per nulla scoraggiati da quei primi tentativi, Antonio Martín e i suoi collaboratori al dipartimento di agronomia e miglioramento genetico vegetale dell’Università di Cordoba decisero di provare con il frumento duro e nel 1982 descrissero una nuova specie, ottenuta questa volta unendo l’orzo selvatico – la mamma – con il grano duro – il papà –, ottenendo una pianta con delle buone caratteristiche agronomiche e che sembrava meritevole di essere messa alla prova in un vero campo.
Nel giro di vari anni il gruppo di Antonio Martín ha generato più di 250 Tritordeum diversi, partendo da piante diverse di orzo selvatico. In questo modo Martín ha costruito una sorta di biodiversità artificiale, necessaria per i futuri incroci. Il Tritordeum, grazie alle sue origini «selvatiche», mantiene alcune caratteristiche tipiche, come la resistenza alla siccità, al caldo e ad alcune malattie. Ha un buon contenuto di proteine e, grazie al fatto di avere tra i genitori il grano duro, è possibile utilizzarlo per panificare e fare la pasta. Oltre che in Spagna, il Tritordeum è coltivato in Italia e Portogallo. Le prime varietà commerciali sono state, ovviamente, registrate e brevettate.
La comunicazione di questo nuovo cereale, inesistente in natura, gioca spesso sul fatto che il Tritordeum non sia un OGM. E questo è sicuramente vero. Se Antonio Martín avesse prelevato un solo gene dall’orzo selvatico trasferendolo nel grano duro, per la legge avrebbe ottenuto un OGM. Ma poiché ha trasferito tutti i geni dell’orzo selvatico, per la legislazione la nuova specie non è un OGM. Non cercate una spiegazione razionale a questa classificazione: non c’è.
Io non ho alcun timore nel mangiare il pane di Tritordeum, nonostante abbia un genoma sostanzialmente diverso da quello di entrambi i genitori, così come non avrei problemi a mangiare pasta di grano duro OGM con un singolo gene prelevato dall’orzo. Non ha alcun senso trattare le due piante diversamente. Non ha alcun senso classificare i vegetali, e chiedere regolamentazioni, in base al tipo di tecnologia utilizzata per ottenerli. Quello che conta sono solo le loro proprietà, verificate a posteriori.
FOOD. La scienza dai semi al piatto, Padova, Centro Culturale Altinate San Gaetano fino al 28 febbraio. Catalogo 24Ore Cultura
Dario Bressanini – Il Sole 24 Ore – 29 novembre 2015