Per un po’ era sembrata a tutti la dipendente ideale. Inchiodata al pc anche di sera ben oltre l’orario di lavoro, la si vedeva spesso in ufficio anche al sabato mattina, a ditta chiusa. Con l’andare dei mesi si è scoperto invece che, più che ideale, la ragazza era sì dipendente ma da social network.
«Facebook su tutti ma non solo», spiega Patrizio Bernardo, legale di diritto del lavoro, doppio studio a Padova e Milano, che ha seguito il caso per conto dell’impresa. Com’è finita? Che la ragazza, trentenne, funzioni e responsabilità di livello medio-alto all’interno di un’azienda commerciale del Padovano piuttosto importante, è stata licenziata. «Il problema con la dipendente – spiega l’avvocato Bernardo – è emerso nel 2011. Abbiamo transato quest’anno, pochi mesi fa». Azienda e impiegata, in pratica, si sono accordate e alla donna è stata riconosciuta una sorta di buona uscita, pari a un tot di mensilità. «Questo tipo di cause – ancora il legale – sono piuttosto complicate. Succede molto spesso che si chiudano con un accordo, che è anche il motivo per cui ricevono poca pubblicità».
Le «complicazioni», se così vogliamo chiamarle, sono intanto il segreto epistolare, diritto tutelato dall’articolo 616 del codice penale. Poi c’è lo scudo dello Statuto dei lavoratori, che, all’articolo quattro, vieta il controllo a distanza sull’attività dei dipendenti «con impianti audiovisivi e altre apparecchiature». Se questo tipo di sistemi si rendono necessari per «esigenze produttive o per la sicurezza del lavoro», l’azienda li può installare solo ottenendo il placet della rappresentanza sindacale interna. In ogni caso il controllo a distanza è limitato tanto nella dimensione dello spazio, leggi perimetro del lavoro, la sede aziendale o l’ufficio, quanto nel tempo: verifiche completate prima o dopo l’orario di lavoro, comunque «lontane» dalla prestazione per cui uno è stipendiato, non sono consentite.
Nel caso padovano, in più occasioni colleghi e superiori della ragazza licenziata avevano notato in lei espressioni divertite alla tastiera. Risate improvvise e sorrisino perenne non sono proprio quel che ci si aspetta da chi sbriga pratiche d’ufficio. «Contemporaneamente – aggiunge Bernardo per spiegare la situazione – si era registrato un evidente calo della produttività della dipendente». Non è venuto a galla, comunque non era essenziale per la causa, il motivo per cui la giovane donna avesse scelto di chattare sempre o quasi con il computer aziendale, tanto da rientrare in ufficio al sabato (senza contare le ore serali passate al desk di lavoro in compagnia di Facebook e «amici» vari). Difficile pensare non avesse un pc a casa, ma così è andata. In ogni caso, la somma tra calo di rendimento e accessi in rete a pioggia ha portato alla fine del rapporto di lavoro. Quasi certo che la verifica del tempo di servizio speso a «socializzare» in rete si sia scontrata, in sede legale, con il già citato articolo quattro dello Statuto dei lavoratori. Da qui la transazione che ha messo la parola fine in calce alla pratica.
C’è dell’altro, però. Un aspetto che trasforma la vicenda di cui sopra in una sorta di paradigma legale. «Quella della perdita di tempo in orario di lavoro causa social network – ricorda Patrizio Bernardo – è davvero la frontiera più attuale nelle controversie tra aziende e dipendenti per ragioni telematiche. All’imprenditore, che si perdano cinque minuti chiacchierando su Skipe o Facebook, può anche interessare poco. Se però la cosa assume una dimensione differente, è chiaro, il peso è diverso».
Anche per la complessità della procedura che si attiva, insomma, di fronte a una dose «minima» di lavoro consumata in socialità virtuale, il datore preferisce chiudere un occhio. È un po’ come la pausa-sigaretta. Si sa che c’è e la si tollera, sul presupposto della fiducia tra dipendente e azienda. Venti «bionde» da tabaccare al giorno, però, diventerebbero un problema. Il punto, però, è un alto. Il nostro legale conferma come negli Stati Uniti, culla di internet e dei social network che hanno «invaso» le vite di tutti, cambiando non poco le abitudini, cause come quella padovana siano davvero all’ordine del giorno. L’Italia e il Veneto, paragonate a Silicon Valley, sono fanciulli digitali. Ma anche qui, evidentemente, la tendenza sta prendendo forma.
Corriere del Veneto – 29 settembre 2012