A un certo punto fa sobbalzare l’affollata platea del Teatro Sociale di Trento accorsa ad ascoltare il nuovo ministro dell’Economia nell’ambito del Festival dedicato proprio all’Economia. «Non sono a favore di una diminuzione dell’età pensionabile, ma di un graduale aumento – scandisce Pier Carlo Padoan -. Mi chiedo cosa succederà in Germania dove sono andati nella direzione opposta». Apriti cielo.
Rilanciata dalle agenzie, la battuta mette in subbuglio centrali sindacali, sedi di partito e organi di informazione. Si riparte con le pensioni nel solco di Elsa Fornero? L’equivoco, se di equivoco si tratta, non dura molto. Lo stesso Padoan, messo sull’avviso dai suoi collaboratori, appena termina il dibattito coordinato da Tito Boeri e Tonia Mastrobuoni, si affretta a precisare. «No, no, per carità. Non ho detto che il governo stia pensando ad alzare l’età pensionabile – spiega -. L’età pensionabile è già indicizzata alle aspettative di vita. Non sono d’accordo a interventi per abbassare l’età pensionabile che stanno facendo alcuni Paesi. Come la Germania, appunto».
Rimediato all’incidente mediatico, il ministro appare a suo agio sul palco, rivelando insospettate doti di humour e non disdegnando di dialogare a suon di battute con il pubblico del Festival. Così a una signora che gli chiede della disoccupazione, risponde soave: «Una soluzione per il rilancio dell’occupazione? Chiedetela domani a Renzi, sicuramente ce l’ha…». Poi la spending review: «Voglio rassicurare tutti: il commissario Cottarelli è vivo e sta bene».
Padoan chiede all’Unione europea di premiare i Paesi che si dimostrano seri e sono in grado di implementare le riforme strutturali. La Ue, però, passate le elezioni deve cambiare marcia e rimettere al centro dell’agenda europea crescita e occupazione. Bisogna trovare le soluzioni per rilanciare gli investimenti. Il ministro, comunque, rassicura Bruxelles e mette le mani avanti: «Vogliamo essere seri, non svicoliamo». Il fatto è, aggiunge, che il vero dramma dell’Italia è il calo della produttività. Ma non solo. «L’unica via per combattere il debito pubblico è migliorare la crescita – insiste il ministro dell’Economia -. Il debito scende se l’economia reale cresce. Se non c’è crescita, gli spostamenti sono minimi o nulli». E prosegue: «Mi basta una crescita reale dell’1,8% del Pil, ma non mi illudo. I benefici delle riforme strutturali crescono con il passare del tempo. Un pacchetto di riforme ha impatto maggiore della somma dei suoi componenti. La riforma del lavoro si può fare, ma se non c’è una riforma della Pubblica amministrazione, allora non serve a niente». Sul fronte tasse, commentando le stime di Bankitalia sulla Tasi rispetto al 2013, quando però la tassa era stata abolita, Padoan getta acqua sul fuoco. «L’aumento era atteso, è solo apparentemente gigantesco. L’aggiustamento era già previsto e starà ai Comuni stabilire quale aliquota applicare».
In prima fila ad ascoltare il ministro ci sono il numero uno di Vodafone, Vittorio Colao, e l’amministratore delegato di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, che oggi assisterà all’intervento a Trento di Matteo Renzi e avrà il primo incontro diretto con lui da quando è diventato premier. Fra i due i rapporti sono stati altalenanti, ma recentemente l’ad del Lingotto ha manifestato nei confronti del presidente del Consiglio «totale sostegno», elogiandone lo «stile nuovo e dirompente» e invitandolo «ad andare avanti».
Da Marchionne arriva un giudizio lusinghiero su Padoan: «È uno degli assi nella manica di questo governo che piace agli italiani e anche all’estero. È una persona equilibrata, un professionista». Il ministro, per altro, se la cava con eleganza di fronte a una domanda che molto elegante non è. Uno dal pubblico chiede: «Il governo sarà ancora succube della Fiat?». Seguono un paio di fischi e invettive all’indirizzo del manager. Padoan guarda verso il manager e allarga le braccia. Marchionne, impassibile, fa lo stesso. Poi il ministro taglia corto: «Non rispondo alla domanda, perché è solo una provocazione. E fin da piccolo mi hanno insegnato che alle provocazioni non si risponde».
La Stampa – 1 giugno 2014