Nella direttiva sul rinnovo dei contratti pubblici le indicazioni sul lavoro flessibile possono essere riassunte in due direttrici: adeguamento della disciplina alla legislazione nazionale sopravvenuta, e in particolare al Jobs Act (Dlgs 81/2015), e sfruttamento degli ambiti che la norma riserva alla contrattazione. Ma, visto il quadro finanziario nel quale si deve operare, il tutto deve avvenire senza oneri aggiuntivi oppure, ove questo non fosse possibile, la copertura degli ulteriori costi deve essere trovata nelle risorse destinate ai rinnovi contrattuali, che al momento già non bastano per soddisfare l’intesa dello scorso 30 novembre.
Tre sono gli istituti che vengono presi in considerazione dall’atto di indirizzo: il contratto a tempo determinato, la somministrazione di lavoro e il part-time.
In relazione al contratto a termine, la direttiva sembra richiamare a un rigoroso rispetto della legislazione nazionale con due obiettivi principali: migliorare la qualità del lavoro dei dipendente a tempo determinato ed evitare i possibili contenziosi che, esperienza insegna, spesso si concludono con costi assai rilevanti. Per far questo è necessario da un lato riconoscere al lavoratore a termine lo stesso trattamento giuridico ed economico attribuito ai dipendenti a tempo indeterminato; dall’altro “costringere” le Pa a ricorrere al lavoro a termine solo per quelle esigenze eccezionali o temporanee che sono previste dalla legge, riconoscendo, implicitamente, che in passato c’è stato un utilizzo allegro dell’istituto. Quattro le direttrici individuate:
valorizzazione dell’anzianità maturata con il servizio a tempo determinato, per esempio ai fini della maturazione dei 24 mesi utili per una successiva progressione economica;
parificazione, come si diceva, del trattamento giuridico ed economico. Se dal punto di vista dello stipendio le due situazioni (a termine e a tempo indeterminato) non presentano grandi differenze, sotto il profilo giuridico ci possono essere margini su cui lavorare, ad esempio per quel che riguarda i permessi;
introduzione di limiti al lavoro a termine, oltre a quello del 20% previsto dal Dlgs 81/2015 e a quello finanziario stabilito dall’articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010 e deroghe quantitative per particolari fattispecie;
ipotesi di superamento del limite dei 36 mesi come durata massima dei contratti a termine con lo stesso soggetto e dei periodi minimi di interruzione fra un contratto e l’altro. Fra i casi che interessano maggiormente la Pa si possono evidenziare l’avvio di un servizio innovativo, il rinnovo o la proroga di un finanziamento, l’istituzione di un nuovo ente; ma anche per queste fattispecie la contrattazione dovrà individuare una durata massima dei vari contratti a termine.
Per quel che riguarda la somministrazione di lavoro, oltre ad affermare che può essere utilizzata solo a tempo determinato, la Funzione pubblica pone l’accento sulla necessità, in sede di contrattazione, di individuare un limite precisi al suo utilizzo, oltre a quelli finanziari già previsti dal lavoro flessibile. La novità riguarda la possibilità di riconoscere a questi lavoratori premi legati alla performance; non risulta chiaro chi li corrisponde e se incidono sul fondo per le risorse decentrate dell’ente.
Infine, in merito al part-time, oltre a un restyling per adeguarlo alla normativa, la direttiva prevede la revisione dell’istituto del lavoro supplementare e dello straordinario, con particolare riferimento ai limiti e ai compensi.
Il Sole 24 Ore – 17 luglio 2017