Muovono dritte ai pilastri della riforma le obiezioni mosse dal Consiglio di Stato al decreto che riscrive le regole dei concorsi pubblici fissate nel lontano 1994 dal Dpr 487. Il provvedimento, avviato durante il governo Draghi dal ministro per la Pa Renato Brunetta e approvato in seconda lettura dal governo Meloni con Paolo Zangrillo a Palazzo Vidoni, ripensa le selezioni pubbliche facendo tesoro dell’esperienza maturata durante la pandemia.
Su questa base la riforma rende strutturale quella digitalizzazione integrale che ha tagliato drasticamente i tempi dei concorsi, portandoli secondo l’ultimo Rapporto Formez dai 786 giorni medi delle procedure chiuse nel 2019 ai 169 giorni registrati nel 2022. Fra gli effetti della via digitale sottolineati dal governo, anzi dai due governi che hanno lavorato al provvedimento, c’è anche la riduzione del rischio di “inquinamento” delle selezioni, perché è più difficile corrompere e mettersi d’accordo con un computer. Ma il Consiglio di Stato non sembra condividere tanto entusiasmo, e nel parere 137/2023 sospende il via libera alla riforma chiedendo alla Funzione pubblica di motivare con numeri, statistiche e analisi fattuali gli effetti positivi della riforma che altrimenti restano «apodittici» e «indimostrati».
Più concreti, almeno nell’ottica assunta dai giudici amministrativi, sono i rischi di alimentare ulteriormente il «nutrito e complesso contenzioso insorto in relazione alla digitalizzazione sia delle modalità di accesso alle prove concorsuali che del loro svolgimento», prodotto prima di tutto dai «casi di esclusioni dalle procedure concorsuali a causa di errori e/o omissioni nella compilazione della domanda telematica e dei connessi principi di affidamento digitale».
La contromisura indicata dal Consiglio di Stato non è ovviamente quella di tornare a carta, penna e calamaio. Ma secondo il parere è indispensabile «la previsione di presidi idonei di verifica e controllo delle tecnologie digitali», che nella riforma mancano.
Un altro colpo arriva alle norme per la parità di genere, che si traduce anche in titoli di preferenza per il genere meno rappresentato nelle posizioni oggetto del concorso. Nella norma attuata dal decreto (articolo 3, comma 6 del decreto Pnrr-2, il n. 36 del 2022) «manca qualsiasi indicazione e qualsiasi riferimento all’adeguamento dei meccanismi di riserva e titoli di preferenza al nuovo contesto ed alla salvaguardia della parità», notano i giudici. Che quindi chiedono al governo di correre ai ripari.