Una, otto, cinque proroghe. In sessanta giorni le regole per i contratti a termine sono cambiate tre volte. E così, per quelli stipulati fino al 20 marzo – prima dell’approvazione del decreto Poletti – ne è ammessa una sola secondo i vecchi criteri. Mentre per le assunzioni a tempo siglate dal 20 maggio in poi (dopo la conversione in legge del provvedimento) i “prolungamenti” possibili sono cinque nell’arco di 36 mesi.
E per i contratti firmati nel periodo intermedio? Dovrebbero essere otto le proroghe ammissibili se si applica la versione originaria del decreto. Una possibilità che riguarda 1,2 milioni di contratti come certificato dal ministero del Lavoro, con 820mila lavoratori interessati. I numeri dimostrano che in questo breve lasso di tempo una buona parte degli assunti a termine ha avuto più di un contratto (1,46 è il numero medio di attivazioni per addetto). L’ennesima riprova che la durata media di queste formule si sta accorciando, soprattutto quando il lavoratore ha più di 30 anni. In base agli ultimi dati disponibili – relativi al 2013 ed elaborati dal centro studi Datagiovani – il 21,4% dei contratti a termine degli over 30 dura al massimo tre mesi (rispetto al 20,2% del 2012 e al 18,2% del 2008), mentre si trova nella stessa condizione il 17,7% dei giovani “a tempo”. E allargando l’orizzonte ai sei mesi si “cattura” quasi la metà (46,2%) dei lavoratori a termine con più di 30 anni.
Se è abbastanza certo che ai contratti a termine stipulati tra il 21 marzo e il 19 maggio si applica la possibilità di otto proroghe, è invece da chiarire l’applicazione della sanzione amministrativa per le imprese che sforano la soglia del 20% di dipendenti a tempo determinato sul totale di quelli in pianta stabile. In base all’interpretazione prevalente che si ispira al principio generale secondo cui la legge non può avere effetto retroattivo ma «dispone solo sull’avvenire», non si dovrebbe applicare la “multa”, maci sarebbe il rischio di dover convertire il contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
La norma non spiega poi come comportarsi nell’ipotesi in cui l’azienda sia stata interessata nell’anno da operazioni societarie: se c’è stata ad esempio una fusione, qual è l’organico di riferimento su cui calcolare il tetto del 20 per cento? E ci sono criticità anche legate alle modalità di calcolo della sanzione (si veda l’articolo in basso).
Dubbi che dovrebbero essere sciolti in una circolare del ministero del Lavoro attesa «in tempi ragionevolmente brevi» assicurano dal dicastero di via Veneto.
Non ci sono ombre invece sulla possibilità di rinnovi “illimitati” entro l’arco dei 36 mesi.
La riforma del lavoro approvata dal Governo Renzi, infatti, lascia invariata la disciplina degli intervalli che devono intercorrere tra un contratto a termine scaduto e un nuovo rapporto. Resta quindi ferma la regola per cui, dopo la fine del contratto a termine, sarà possibile stipularne un altro solo allo scadere di un intervallo minimo di tempo: 10 o 20 giorni, a seconda che la durata sia inferiore o superiore a sei mesi. A livello numerico sono mezzo milione i contratti a termine al test dei rinnovi: tanti sono infatti i dipendenti a tempo determinato che vedranno concludere il proprio incarico entro fine giugno.
Noncambia neanche la disciplina della cosiddetta proroga di fatto. Il contratto, alla sua scadenza, può continuare ad avere esecuzione tra le parti per un periodo massimo di 30 giorni (50 per i rapporti di durata superiore a sei mesi), senza che questa circostanza lo renda illecito. In questi casi si applica solo una maggiorazione retributiva per il lavoratore
Il Sole 24 Ore – 9 giugno 2014