Michela Nicolussi Moro. Medici in fuga dal servizio pubblico. Solo negli ultimi mesi dagli ospedali veneti hanno dato le dimissioni in 51, 14 dei quali dall’Usl Polesana. Sono soprattutto pediatri, radiologi, anestesisti e ortopedici, già difficili da trovare e di cui c’è carenza ormai cronica. «Se ne vanno perchè non ce la fanno più — denuncia Adriano Benazzato, segretario regionale dell’Anaao (ospedalieri)—. Sono stremati da carichi di lavoro esagerati, da continue rinunce a riposi e ferie, dal definanziamento del Servizio sanitario nazionale, dal blocco del turnover e da un’organizzazione inadeguata. Gli orari massacranti, la carenza di fondi per mettere in sicurezza le strutture e turni sempre più serrati rendono gli ospedali meno affidabili per chi ci lavora, ma anche per i pazienti».
Insomma aumenta il rischio clinico (gli errori in corsia) e viene compromessa la correttezza delle cure. Inascoltati scioperi, incontri con governo nazionale e regionale, contestazioni, appelli, i dottori passano ai fatti. E sbattono la porta in faccia al servizio pubblico, che già indebolito da una situazione di sottorganico conclamata, ora rischia il collasso. «Una volta il posto in ospedale era la sicurezza, la meta da raggiungere — racconta Benazzato — oggi invece la sanità pubblica si regge sulla buona volontà della bassa manovalanza, di poche persone che, ancora innamorate del loro lavoro, tirano il carro nonostante la fatica, l’insufficienza di posti letto, la mancanza di farmaci e presidi, la rabbia degli utenti». Ecco, la seconda ragione della fuga è proprio il rancore dei malati contro operatori necessariamente «frettolosi» o poco presenti. Un livore lievitato al punto che, stando alle statistiche elaborate dai sindacati di categoria, il 90% dei camici bianchi dichiara di aver subìto aggressioni: il 64% minacce verbali, l’11% gesti vandalici, il 22% percosse e il 13% minacce a mano armata o con armi improprie. In più nove medici su dieci durante l’intero ciclo professionale hanno subìto almeno una volta un atto violento e otto su dieci più di uno.
«Reazioni scatenate da prestazioni negate, che il paziente pretende ma che per mancanza di risorse non possono essere erogate — spiega Benazzato —. Le esplosioni d’ira avvengono in particolare al Pronto soccorso ma anche nei reparti. Del resto se c’è un solo medico per 160 letti mi spiegate come fa a dare retta a tutti subito e a parlare con i familiari? In passato facevamo la guerra per andare in pensione a 70 anni, ora chi può sceglie il prepensionamento a 58». I medici che invece non vogliono appendere al chiodo lo stetoscopio passano al convenzionato, al privato puro oppure si aprono un ambulatorio. «Stiamo assistendo a un fenomeno nuovo, mai visto — ammette Giovanni Leoni, segretario regionale della Cimo (ospedalieri) e presidente dell’Ordine dei Medici di Venezia —. Le attuali condizioni di lavoro stanno spingendo sempre più colleghi bravi e specializzati ad andarsene. Hanno esaurito l’entusiasmo per un mestiere entusiasmante ma usurante, che si sceglie per passione non per soldi, visto che non ci sono sabati, nè domeniche, nè festivi. Bisogna lavorare a Natale, a Ferragosto, a Pasqua, alzarsi di notte per fare una radiografia, quindi si devono avere grandi motivazioni, è una vita che deve piacere. Se si continua così — chiude Leoni — gli ospedali pubblici serviranno solo a garantire l’urgenza-emergenza e per le cure specialistiche ci si dovrà rivolgere al privato. E sarà la fine della sanità universalistica, alla portata di tutti».
Un avvilimento generale, esteso ai dirigenti. Tanto che da oggi la direzione medica degli ospedali di Rovigo e Trecenta non garantirà più la reperibilità.
«E’ vero, nei 68 ospedali del Veneto mancano specialisti, soprattutto medici di Pronto soccorso, ortopedici, anestesisti e pediatri — dicono dalla Regione —. Questi ultimi preferiscono diventare pediatri di libera scelta, più soldi e meno rischi, gli altri passano ai centri convenzionati o ad altre Usl, che se li rubano tra di loro. Noi i concorsi li facciamo, ma vanno deserti, anche per la mancanza di programmazione del ministero della Salute, che a Medicina impone il numero chiuso a 10mila iscritti in base al fabbisogno nazionale. Peccato che poi i laureati siano 7mila e che solo 4500 possano accedere alle scuole di specialità, requisito necessario all’assunzione». Nella trattativa per l’autonomia, Palazzo Balbi ha chiesto al governo che si torni a prima del 1996, quando un medico poteva iniziare a lavorare appena laureato, affrontando la specializzazione da interno.
Il Corriere del Veneto – 1 aprile 2018