Ognuno dei 1.111 consiglieri regionali pesa sul bilancio pubblico come un manager di altissimo lignaggio: 743mila euro all’anno, calcolando solo le spese più “politiche” e senza considerare le ricadute legate al personale amministrativo di supporto.
Una cifra imponente, che fa smarrire i risparmi veri o presunti creati finora dagli unici tagli applicati davvero ai “costi della politica”, quelli che hanno dimezzato i consigli dei Comuni piccoli e piccolissimi dove i gettoni di presenza viaggiano intorno al centinaio di euro all’anno. Come ogni media, però, anche questa è figlia di situazioni molto diverse fra loro: l’inchiesta riassunta nella grafica riportata misura le performance dei consigli regionali in dieci indicatori-chiave, dal numero di consiglieri e commissioni alle loro indennità e rimborsi, passando dalle spese per organi istituzionali e consulenze, e mette nel mirino i valori fuori media, ponderati in base alle dimensioni della Regione.
A uscirne meglio sono Emilia Romagna, Marche e Veneto, ciascuna delle quali mostra un solo valore su dieci colorato di rosso perché peggiore di quello medio delle altre amministrazioni, mentre in coda si incontra il Molise (7 valori peggiori della media) seguito da Sicilia, Calabria, Basilicata e Piemonte (6 valori). Anche il Lazio, insieme alla Lombardia, occupa le parti basse della graduatoria.
Il ranking, naturalmente, non pretende di misurare con puntualità l’efficienza delle istituzioni, soggetta a un’infinità di variabili, ma i dati fanno balzare agli occhi le caratteristiche delle diverse Regioni. Sul versante delle uscite in rapporto alla popolazione, per esempio, Molise e Basilicata sono penalizzate dalle dimensioni, ma è giustificabile che la Sicilia spenda per gli organi istituzionali sei volte tanto la Toscana e dieci volte la Puglia? E perché mai, in base alle indennità nette e ai rimborsi censiti dalla stessa conferenza dei presidenti dei consigli regionali, un politico lombardo può arrivare a cumulare più del doppio di un collega emiliano? Senza contare i casi, come in Veneto e in Piemonte, in cui i rimborsi possono addirittura spingere le entrate di un consigliere sopra quelle del suo presidente.
Obbligati dalla manovra-bis dell’anno scorso, che ha rivisto al ribasso i numeri della politica locale, molte Regioni hanno approvato o stanno lavorando a riforme che riducano le dimensioni delle assemblee (solo la Lombardia era già in linea con i nuovi parametri), ma il problema non è solo di numeri. In molti casi, infatti, bisogna vedere se i consiglieri “semplici”, privi di galloni (e quindi di indennità aggiuntive), esistono davvero. Tra presidenti e vicepresidenti di commissione, capigruppo, segretari, questori e consiglieri-assessori, i posti a stipendio maggiorato distribuiti dai vari consigli sono 862, cioè il 78% dei seggi totali.
Il record? Proprio nel Lazio, dove per 71 consiglieri la proliferazione di gruppi (spesso con un solo componente, presidente di sé stesso), commissioni e comitati arriva a prevedere fino a 110 posti in grado di spingere la busta paga sopra ai livelli di base. Naturalmente, un capogruppo può essere anche vice-presidente di commissione, o consigliere-segretario, altrimenti sarebbe impossibile coprire tutte le caselle (lo stesso accade in Abruzzo, Basilicata, Calabria e in molti altri casi). Anche in questo capitolo, però, non tutti si comportano allo stesso modo. Mentre in qualche consiglio si sono moltiplicati i mini-poltronifici creati da gruppuscoli e commissioni, altrove le indennità aggiuntive si contano sulle dita (per esempio nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, in tutto equiparabili alle Regioni).
Gli indicatori di costo della politica regione per regione
20 settembre 2012