L’impiego delle «casalinghe» in età attiva potrebbe creare ulteriori 268 miliardi di valore aggiunto (+18%)
L’impatto sarebbe dirompente: 268 miliardi di euro, pari a oltre il 18% del Pil. L’entrata nel mercato del lavoro delle casalinghe – più di 4 milioni – non solo porterebbe il tasso di occupazione femminile ai livelli europei, ma potrebbe contribuire anche a risollevare lo stato di salute dell’economia italiana.
Dopo i timidi segnali di ripresa registrati dall’ultimo bollettino Istat – con un tasso di occupazione femminile salito a giugno al 48,8% (il picco più alto dall’inizio delle rilevazioni) -, la Fondazione Moressa ha scattato un’istantanea della ricchezza prodotta dal lavoro delle donne in Italia e del valore potenziale se l’esercito di “casalinghe”, concentrato soprattutto al Sud, decidesse di scendere in campo.
Il contributo al Pil
In base all’analisi sulla distribuzione delle occupate per settore, e ipotizzando che uomini e donne abbiano la stessa produttività, la ricchezza prodotta dalle lavoratrici in Italia è pari al 41,6% del Pil, per un valore di 614,2 miliardi di euro.
Oltre il 70% del “Pil femminile” deriva dal settore dei servizi, dove si concentra il 63% delle lavoratrici. Seguono manifattura (11,5%) e commercio (11,3%). Se invece osserviamo per ciascun settore l’incidenza del “Pil femminile” rispetto a quello maschile, il peso maggiore si registra in alberghi e ristoranti (51,4%), seguiti da servizi (49,6%) e commercio (41,3%).
La «forza» delle casalinghe
Sono oltre 4,3 milioni le lavoratrici potenziali: la Fondazione Moressa le ha identificate all’interno del bacino delle casalinghe italiane, 7,3 milioni nel 2016 secondo l’Istat. Di queste, il 60% rientra nella classe d’età 15-64 anni e quindi nella forza lavoro.
«Molte di queste donne – spiega la ricercatrice Chiara Tronchin – non cercano lavoro per impedimenti familiari o perché scoraggiate». Al Sud il tasso di occupazione femminile ondeggia intorno al 30% da molti anni: in quest’area, soprattutto, molte donne smettono di lavorare per difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura dei figli, mancanza di servizi per l’infanzia e anche per fattori culturali.
Ma quale sarebbe l’effetto sull’economia nell’ipotesi “estrema” che tutte le casalinghe entrassero sul mercato rompendo gli argini dell’inattività?
«Il tasso di occupazione femminile a livello nazionale arriverebbe al 70,3%, con un aumento del 22%», risponde Tronchin. Da maglia nera – oggi siamo penultimi subito dopo la Grecia – entreremmo invece nel club dei virtuosi, allineandoci a Germania e Olanda. Senza contare che questo balzo in avanti ci permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di Europa 2020, che prevede un tasso di occupazione femminile al 75% per la media Ue e al 67-69% per l’Italia.
Il boom di occupazione femminile si rifletterebbe anche sul Pil: considerando la ricchezza per occupato, la Fondazione Moressa ha stimato un incremento di 268 miliardi di euro, +18,2% del valore aggiunto totale.
«Difficile pensare che tutte le donne italiane fuori dal mercato improvvisamente si mettano a cercare e trovino un lavoro – commenta Paola Profeta, docente della Bocconi che con la collega Paola Casarico dieci anni fa stimava che 100mila donne in più al lavoro avrebbero prodotto un aumento di Pil pari allo 0,28% -. Possibile però continuare il leggero trend positivo degli ultimi mesi e provare a dare una svolta al fenomeno, con un’agenda chiara, in cui il tema dell’occupazione femminile sia centrale». Con quali azioni? «Incentivi monetari o fiscali per le donne che rientrano al lavoro, congedi di paternità più sostanziali di quelli esistenti, bonus fiscali per le aziende che assumono donne e servizi alla prima infanzia», conclude Profeta. Senza trascurare la promozione dei talenti femminili e del valore dell’indipendenza. Tutte misure che potrebbero accelerare la crescita dell’occupazione, aumentata negli ultimi 10 anni del 4,9%, con 442mila lavoratrici in più.
Francesca Barbieri – Il Sole 24 Ore – 15 agosto 2017