di Dario Di Vico. Ieri l’Istat ha fornito le rilevazioni sull’occupazione relative al mese di settembre 2017 e purtroppo non ci sono novità particolarmente positive. In estrema sintesi si può dire che mentre il Pil ha riguadagnato velocità, anche se a colpi di decimali, i posti di lavoro non hanno fatto registrare lo stesso brillante andamento. Gli occupati a settembre sono cresciuti di sole 2 mila unità nonostante che si tratti tradizionalmente di un mese di «ripartenza» e quindi ci si potesse attendere qualcosa di più. Così il tasso di occupazione è sceso dello 0,1% e quello di disoccupazione invece è rimasto invariato (11,1%). Due dati si sono mossi più che nel recente passato e riguardano, il primo, gli inattivi cresciuti di 25 mila unità e il secondo i lavoratori indipendenti che dopo mesi di cali sono saliti di ben 19 mila unità. In questo caso probabilmente settembre ha giocato il suo ruolo «storico» favorendo psicologicamente l’avvio di nuove attività di auto-impiego e l’apertura di partite Iva.
Ma operato il riepilogo dei dati essenziali bisogna ragionare sulla rilevazione statistica che più colpisce dentro questa tornata Istat ed è quella che concerne l’altalena tra contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato. Ovvero la qualità/stabilità dell’occupazione. Come messo in rilievo nei mesi scorsi dall’Osservatorio dell’Inps la tendenza alla crescita dei contratti a termine era stata costante nei mesi scorsi e ora l’Istat ci fornisce un dato schiacciante: infatti negli ultimi dodici mesi su 100 occupati in più ben 93 lo sono diventati con un ingaggio a tempo determinato e solo 7 con un contratto sine die.
E’ ovvio che per le sue proporzioni questa rilevazione farà discutere e forse è utile già fin d’ora cercare delle interpretazioni di una tendenza così netta e inequivocabile. Il mercato chiede più flessibilità di quanta gliene dia il jobs act che pure aveva tolto di mezzo l’articolo 18 proprio per incoraggiare gli imprenditori a ricorrere alle tutele crescenti compensate da una way out. Purtroppo non è andata così. E le motivazione che gli addetti ai lavori ricostruiscono sono sostanzialmente di tre tipi. La prima riguarda il mancato funzionamento delle politiche attive che non riescono a facilitare le cosiddette transizioni da una condizione all’altra e quindi non fluidificano a sufficienza il mercato del lavoro.
La seconda spiegazione rimanda alle caratteristiche inedite dell’economia post-crisi, tema troppo sottovalutato dagli economisti. La ripresa c’è ma si tratta di una ripartenza che presenta molte novità rispetto ai precedenti avvicendamenti ciclici tra recessione e crescita. Oltre all’occupazione non crescono neppure inflazione e salari. E gli indizi di un mutamento sostanziale arrivano dunque ai canonici tre. Forse il termine «incertezza» è fin troppo banale per sintetizzare il mood degli imprenditori che devono fare i conti con questo scenario più nervoso e meno programmabile. Di sicuro però prima di mettere mano alla pianta organica le aziende ci pensano non due ma almeno tre-quattro volte e tutto ciò ha avuto concretamente l’effetto di raffreddare l’utilizzo del jobs act e ha portato gli operatori a utilizzare strumenti più flessibili.
La terza spiegazione è forse la più amara ed è quella che gli imprenditori forniscono solo a microfoni rigorosamente spenti. I giovani che si presentano ai colloqui non soddisfano le aspettative e quindi le aziende non si sentono invogliate a rischiare per i tre anni previsti dal jobs act. Vogliono rischiare meno e quindi ricorrono ai contratti a termine ripetuti ed effettuano una rotazione dei giovani coinvolti. La mancanza di una vera esperienza di alternanza studio/lavoro, secondo gli imprenditori, pesa molto nella cultura dei ragazzi, nel loro approccio con l’ambiente aziendale e gli stessi giovani risentono troppo dei condizionamenti familiari.
Come si può facilmente vedere il catalogo delle contraddizioni che incombono sulla nuova occupazione è piuttosto nutrito e servirebbe quantomeno un approccio coordinato e di tipo sistemico. Con la legge di Bilancio il governo Gentiloni ha scelto di tornare a incentivare il ricorso al jobs act anche se con uno sconto contributivo del 50% e delimitando la platea (per il 2018 fino a 35 anni, per il 2018-20 per gli under 30). Incrociamo le dita e ci sarà comunque tempo per valutare se il nuovo ricorso agli incentivi sarà servito a superare la freddezza degli imprenditori e a rilanciare il contratto a tempo indeterminato.
Il Corriere della Sera – 1 novembre 2017