Adulterazione dell’acqua e inquinamento ambientale. Sono le accuse rivolte ai manager – attuali ed «ex» – della Miteni, l’azienda di Trissino sospettata di essere la principale responsabile dello sversamento di Pfas nella falda acquifera che serve una vasta zona a cavallo tra le province di Vicenza, Verona e Padova.
Mentre ieri ha preso il via lo screening sulla popolazione, l’inchiesta coordinata dai sostituti procuratori Hans Roderich Blatter e Barbara De Munari ha subito un’accelerazione dopo il rinvenimento, mercoledì mattina, di rifiuti industriali sepolti, a un metro e mezzo di profondità, nell’argine del torrente Poscola. A scoprire le scorie (materiali diversi, mescolati a calce) sono stati alcuni tecnici della stessa Miteni, impegnati nei carotaggi che rientrano nel piano di interventi predisposto per arginare la contaminazione. «Si tratta di rifiuti industriali sepolti probabilmente negli anni Settanta quando furono realizzati gli attuali argini del torrente dalla società Rimar», spiegano dall’azienda. L’inquinamento sarebbe quindi imputabile alla «Ricerche Marzotto», come si chiamava lo stabilimento molti anni fa, prima di chiudere per lasciare il posto alla Miteni.
La procura di Vicenza, che da tempo ha avviato un’indagine sulle Pfas, ha deciso di vederci chiaro, ordinando l’immediato sequestro dell’area. Contemporaneamente sono stati spiccati avvisi di garanzia per i manager (attuali o ex) della Miteni. Si tratta dei vertici, compresi l’amministratore delegato Antonio Nardone e il suo precedessore Luigi Guarracino. Per tutti l’accusa è di adulterazione dell’acqua. Cinque di loro (oltre a Nardone e Guarracino, il presidente Brian McGlynn, il dirigente Francesco Cenzi,e il responsabile ambiente Davide Drusian) sono anche sospettati del reato di inquinamento ambientale. Indagata pure l’azienda, sebbene solo per illeciti di carattere amministrativo.
Pur riferendosi al ritrovamento dei rifiuti sulla riva del Poscola – «una sostanza con consistenza semi-solida di colorazione nerastra apparentemente avvolta in telo di plastica», viene descritta nell’avviso di garanzia – questa indagine è confluita nell’inchiesta più ampia, coordinata dai due pm incaricati di trovare eventuali responsabilità, dopo che per decenni il sito produttivo ha scaricato sostanze perfluoro alchiliche che sono finite nelle falde, da lì all’acquedotto e infine nel sangue di migliaia di cittadini.
L’indagine pare destinata ad allargarsi. La Miteni si è sempre difesa sostenendo che «la produzione di Pfas a catena lunga è cessata sin dal 2011», ma la procura sembra decisa a prendere in considerazione anche le lavorazioni più recenti, quelle a «catena corta» che l’azienda ha sempre descritto come «molto meno persistenti delle molecole precedenti». Si punta alla creazione di un pool di esperti che, per conto dei pm, dovrà analizzare gli studi su Pfas e «mini-Pfas» realizzati finora (e spesso con risultati molto diversi) per arrivare a stabilire quali siano i reali effetti sulla salute e da quanto i manager ne erano informati. A quel punto, la posizione degli indagati potrebbe cambiare.
Dal fronte opposto, in un comunicato, Miteni ostenta sicurezza: «L’azienda ha dato piena disponibilità e collaborazione. Il seppellimento di rifiuti ai margini dello stabilimento è un potenziale danno contro la collettività, contro i lavoratori di Miteni e contro l’azienda stessa. Il sequestro e l’approfondimento dei fatti da parte della procura di Vicenza è un atto che va a tutelare tutte le persone, il territorio e chi ha sempre operato nel pieno rispetto delle leggi e dell’ambiente».
Andrea Priante – Il Corriere del Veneto – 31 gennaio 2017