Rocco Moliterni. Nell’annoso dilemma tra pane e companatico gli italiani sembrano aver scelto decisamente quest’ultimo. Negli ultimi dieci anni il consumo medio di pane si è più che dimezzato e abbiamo toccato il minimo storico con soli 85 grammi a testa al giorno. I dati sono della Coldiretti che in occasione della Giornata mondiale del pane (si è celebrata ieri) ha diffuso un’analisi dettagliata da cui si evince che dal 1980 ad oggi ci siamo sempre più tenuti alla larga da forni e panetterie: in quell’anno mangiavamo 230 grammi di pane al giorno, alla boa del nuovo millennio 180, per arrivare ai 120 grammi del 2010. E se pensiamo che nel 1861, anno dell’Unità di Italia, ne facevamo fuori più di un chilo a testa al giorno il quadro diventa completo.
La fine del Paese rurale
La prima cosa che ci dice è che l’Italia non è più, ma lo sapevamo da tempo (almeno dagli anni del boom), un Paese rurale. Allora i consumi alimentari erano molto più semplici e il pane era (con il vino che ha conosciuto un analogo tracollo in quanto a consumi) l’alimento più diffuso, quello intorno a cui ruotava il nostro sostentamento. In Italia, fino alla prima metà del ’900, non c’era borgo che non avesse il forno comune dove le donne portavano a cuocere il pane, magari per l’intera settimana. Curiosamente c’è oggi un ritorno all’antico con la moda di prepararsi il pane in casa (pare che siano ben 16 milioni gli italiani che almeno qualche volta si azzardano a farlo e la speranza nella maggioranza dei casi è che non vi invitino a cena).
C’è un altro luogo comune da sfatare ed è quello per cui pensavamo di essere tra i maggiori consumatori di pane al mondo. Non è vero: nel 2015, in testa ai consumi mondiali c’era la Turchia con 105 chili di pane a testa (il triplo dell’Italia), seguita dal Cile con 96 e dall’Argentina con 76. Quindi a sorpresa una triade europea a 70 chili l’anno: Svizzera, Polonia e Grecia (c’è da dire che essendo noi leader mondiali nel consumo di pasta – 28 chili l’anno – se mangiassimo anche tanto pane saremmo come minimo un popolo di obesi).
Cosa ha portato a un calo così consistente nel consumo di pane? Non c’è ovviamente un solo motivo. Da un lato si sono modificati gli stili di vita, e il pane ha sempre avuto l’immagine negativa di qualcosa che ti fa ingrassare, e dall’altro si sono moltiplicate le allergie e le intolleranze al glutine: un tempo non si sapeva neppure che esistesse la celiachia, oggi ci sono interi scaffali nei supermercati dedicati a prodotti per celiaci. A proposito di supermercati, c’è da dire che gli italiani preferiscono il pane artigianale (l’88 per cento del mercato) rispetto a quello industriale.
Il campanilismo
Tra l’altro a differenza della Francia, dove la baguette è uno dei simboli del Paese, dalla Bretagna alla Costa Azzurra, in Italia esiste una forma o un tipo di pane per ogni campanile. Si passa dalla biova torinese alla michetta milanese, dalla coppia ferrarese al cafone campano, dalla ciriola romana al pistoccu sardo, per non parlare del pane «sciocco» toscano (ossia senza sale: da cui i celebri versi di Dante «Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui»). E come capita sovente in Italia ciascuno rivendica la propria supremazia, anche se a volte si tratta di località a pochi chilometri di distanza. È il caso ad esempio della storica rivalità tra il pane di Matera e quello di Altamura, entrambi fatti con la semola di grano duro. In tal caso l’eccellenza sembra essere stata avallata anche dall’Ue: tra i cinque pani della tradizione popolare riconosciuti da questa istituzione ci sono entrambi, accanto alla coppia ferrarese, alla pagnotta del Dittaino e al pane casareccio di Genzano. Naturalmente facendo fremere i siciliani di Castelvetrano che ritengono il loro pane nero il migliore del mondo.
Peraltro proprio per ovviare alle intolleranze sono sempre più diffusi pani di cereali alternativi (dal farro alla farina kamut), ad assaggiare i quali però non sempre vale il detto «buono come il pane».
La Stampa – 17 ottobre 2016