All’emiliano Raffaele Donini, coordinatore degli assessori regionali alla Sanità, piace l’idea di finanziare Asl e ospedali con la tassa sul gioco. Ma senza risorse aggiuntive non ha dubbi: «La maggior parte delle Regioni rischia di andare in piano di rientro, con conseguenze pesanti per gli assistiti».
Donini, l’inflazione si è mangiata 15 miliardi di fondo sanitario in 4 anni, in più c’è l’onere del contratto dei medici. Qual è il minimo sindacale di risorse da aggiungere per la sanità?
«Posso dire che sul 2023 mancano 4 miliardi, così come ha pubblicamente affermato lo stesso ministro della Salute Schillaci a più riprese e come sostengono da tempo tutte le Regioni italiane. La sostenibilità finanziaria del Sistema sanitario nazionale a oggi non c’è. Sembra che questo Paese non abbia imparato nulla dal Covid. Su questo punto non faremo passi indietro. Difenderemo con ogni mezzo democratico il diritto alla salute dei nostri cittadini, un diritto sancito dalla Costituzione».
Quante Regioni rischiano di andare in piano di rientro e con quali conseguenze per gli assistiti?
«Tranne pochissime eccezioni, sarà il destino di tutte quelle Regioni che non troveranno risorse straordinarie ed eccezionali, per il quarto anno consecutivo, magari attingendo a proprie risorse di bilancio, sottratte però ad altre voci di spesa. Le conseguenze del sottofinanziamento della sanità pubblica ed universalistica sono già evidenti a tutti: lunghe liste d’attesa, difficoltà a mettere in campo la riforma della sanità territoriale centrata su Case e Ospedali di comunità, solo per citare due conseguenze evidenti. Ma anche il personale sanitario ne subisce le ricadute negative, perché non è possibile valorizzarne economicamente il lavoro».
Le piace l’idea di una tassa sul gioco per finanziare la sanità?
«Mi piace ogni proposta che metta la sanità pubblica e universalistica al centro delle azioni di governo e parlamento».
Il taglio di Case e Ospedali di comunità dal Pnrr secondo lei mette a rischio la riforma della sanità territoriale?
«Senza alcun dubbio, qualora non fosse chiaro da subito che tali investimenti sarebbero contemporaneamente finanziati con nuove risorse aggiuntive della programmazione statale in sanità e con nuove procedure per spendere più velocemente tali risorse. Se invece si pensasse a definanziare opere finanziate con il Pnrr, per poi coprirle con risorse già previste o impegnate, sarebbe una proposta inaccettabile».
Con meno strutture territoriali si va incontro a una desertificazione della sanità nelle aree interne meno popolose?
«Il rischio esiste, è evidente. Ed è proprio per questo che bisogna scongiurare la diminuzione degli investimenti per le strutture territoriali, ad iniziare dalle Case di comunità. Attenzione, però, non basta realizzare una rete di queste strutture. Bisogna assicurare le risorse sia per il personale sanitario che ci lavorerà, portando competenze ed esperienza, sia per i servizi e le tecnologie. Il rischio, altrimenti, è di fare un piano edilizio, ma un piano edilizio di tante piccole, e vuote, cattedrali nel deserto».
I medici di famiglia puntano i piedi di fronte alla prospettiva di lavorare nelle Case di comunità. Le Regioni come pensano di risolvere il problema?
«Le rispondo con un esempio pratico: In Emilia-Romagna più del 20% dei medici di medicina generale operano nelle Case di comunità che sono 130 sulle quasi 500 in Italia, a testimonianza del fatto che nella nostra regione la sanità territoriale è una realtà solida già da tempo, su cui certamente continuare a lavorare, ma che vede proprio i medici di medicina generale tra i protagonisti, visto che sono in 1.900 a lavorarci, dei quali 500 a tempi pieno. Occorre quindi dialogare e trovare intese, e penso che l’esempio del nostro territorio possa rappresentare un buon punto di partenza».
La Stampa