Le ultime manovre, ed in particolare quella più recente di agosto, pongono obiettivi di risparmio. Per raggiungerli misure di ridisegno del settore pubblico e non semplici tagli
Le ultime manovre, ed in particolare quella più recente di agosto, pongono obiettivi di risparmio per il settore pubblico allargato che possono essere raggiunti solo attraverso modalità di intervento strutturali e nuovi, che portino a ridisegnare in termini quantitativi e qualitativi il peso e il ruolo del settore pubblico per i prossimi anni. Gli ulteriori 6 miliardi di risparmi previsti per i ministeri e gli oltre 9 miliardi per le regioni e le autonomie locali, che si aggiungono alle misure contenute nelle manovre precedenti, non possono essere conseguiti con i tagli lineari oppure con interventi marginali, pure necessari nell’attuale contesto, come i tagli alle indennità e ai compensi. Vi sono obiettivi di finanza pubblica che, perla loro entità e per la gravità dell’attuale contesto in cui devono essere raggiunti, richiedono misure nuove volte a rendere altamente probabili e soprattutto strutturali i risparmi stimati. Per questo sarebbe necessario parlare, per una maggiore coerenza con il contesto, di una manovra di ridisegno del settore pubblico e non di semplici tagli. I processi promossi in questi anni come l’informatizzazione, il decentramento, la semplificazione o l’esternalizzazione non hanno portato a meno pubblico ad un miglior pubblico, ma paradossalmente a più spesa e a meno servizi. Processi come la contrattualizzazione del lavoro pubblico o il decentramento amministrativo, che hanno riconosciuto ampia autonomia alle parti dei singoli livelli di governo, sono stati declinati in maniera irresponsabile rendendo tra l’altro incerti e poco trasparenti i bilanci. Servono oggi piani industriali e di razionalizzazione come quelli previsti dal decreto legge 98/2011, che, sulla base delle funzioni considerate centrali, individuino le organizzazioni deputate a farlo, eliminando le duplicazioni tra livelli di governo e tra società ed enti partecipati, che oltre ad aumentare i costi rendono onerosi gli interventi. Su una spesa inefficiente si sono costituiti uffici ed enti inutili e si è creata della falsa occupazione. Sarebbe stato più corretto negli anni monitorare non solo il personale delle Pa ma anche quello delle loro partecipate e consorziate. Solo a distanza di anni si pone l’attenzione seriamente su questo fenomeno. Ancora una volta tardivamente. Alcuni studi in corso mostrano come si possa calcolare in circa 200.000 unità il personale complessivamente eccedente nel settore pubblico in base alla duplicazione di attività e procedimenti. Ben oltre si andrebbe se si analizzassero le competenze di questo personale e si confrontassero con quelle realmente necessarie: avremmo il doppio delle eccedenze, ma al contempo la mancanza di competenze tecniche operative e specialistiche. Un quadro che non si può affrontare soltanto con il blocco delle assunzioni, ma con uno strumentario che obblighi alla dichiarazione di eccedenza ove presente e faciliti il trasferimento del personale, come ad esempio con la recente disposizione sulla mobilità contenuta nel recente decreto. Costi standard e fabbisogni standard diventano centrali per innescare una nuova era nella gestione della cosa pubblica, così come un sistema sanzionatorio efficace per gli amministratori, basato su controlli da parte di organi tecnici e non su autodichiarazioni. La trasparenza e la leggibilità dei bilanci, in una veste consolidata, e la redazione degli inventari di fine mandato sono prerequisiti di partecipazione al governo della cosa pubblica e di controllo, che andrebbero pretesi da tutti gli stakeholders e soprattutto da un moderno sindacato non corporativo. Il ridisegno del settore pubblico e la stessa spending review richiedono una normativa, come è intervenuta negli ultimi anni nel privato, per gestire realmente le mobilità di ufficio, sopprimere gli enti inutili, licenziare o ricollocare il personale, prevedendo, ad esempio, strumenti di cassa integrazione per le società interamente partecipate, piani di ricollocazione e riconversione sulla base delle competenze e i servizi da assicurare. Il rischio è che gli amministratori, grazie al federalismo fiscale, utilizzino al massimo la leva tributaria, procrastinando ancora una volta i necessari processi di riforma
Il Sole 24 Ore – 19 luglio 2011