Nicola Grolla. Basta una cifra per dare il senso dell’import alimentare italiano: 42 miliardi di euro. Questo è il bilancio totale dei prodotti agroalimentari che il nostro Paese ogni anno fa arrivare dall’estero. Una cifra stabile da ormai quattro anni, nonostante il leggero calo dello 0,5% registrato nel 2016. Dalle carni al latte, passando per il frumento e il pesce: tutte materie prime che il nostro settore produttivo non riesce a garantire a un’industria alimentare che sulla lavorazione ha costruito il successo del «Made in Italy».
Ma da dove vengono tutte queste materie prime? La Coldiretti traccia una cartina dell’importazione che va dalla Francia alla Polonia per la carne bovina refrigerata. Dalla Germania e dalla Slovenia arriva il latte. Quasi metà del grano duro fa un viaggio transatlantico dal Canada per giungere fino a noi. Oppure qualche migliaio di chilometri in meno se arriva dall’Ucraina. Insomma, Europa o meno non fa differenza. Come accade per il caffè grezzo, quello in chicchi: per garantirselo, in Brasile, le aziende italiane spendono 460 milioni di euro all’anno. E poi ci sono i 170 milioni di euro spesi per le mandorle statunitensi o i 67 milioni per i crostacei e i molluschi cinesi. Materie che costituiscono la base per alcuni dei maggiori marchi alimentari italiani.
Nel dettaglio, la parte del leone la fanno le carni: il 70% delle proteine ovicaprine (pecore e capre) viene dall’estero mentre quelle bovine (manzo e vitello) si fermano al 40% . Va un po’ meglio per i salumi e la carne suina che, nonostante la tradizione di insaccati italiani, tocca quota 35%. Diverso il discorso per quanto riguarda il frumento. Se la pasta è composta per il 50% di grano duro proveniente dall’estero, il grano tenero destinato ai panifici si ferma al 30%. Così come latte, formaggi e yogurt. E che dire del pesce? Anche in questo caso il Mediterraneo che circonda la nostra Penisola non basta. Le aziende italiane spendono oltre quattro miliardi all’anno per pesce, crostacei e molluschi. L’unico settore in cui la produzione interna non sembra temere scarsità è quella degli ortaggi dove solo l’1% di zucchine, pomodori, carote e cipolle non cresce e matura sul suolo italiano.
Una dipendenza che si spiega solo intrecciando tre diversi fattori. Il primo riguarda l’abbattimento dei costi: «Dove si può si cerca sempre di rifornirsi da una filiera completamente italiana. Ma molto spesso le aziende stanno alla finestra di un mercato globalizzato dove la concorrenza è falsata da regole del gioco diverse. A partire dal costo del lavoro», commenta Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti. Oltre a questo si devono tenere in considerazioni tecniche di coltivazione diverse: «Soprattutto nei Paesi extraeuropei si utilizzano fitofarmaci che qui da noi sono fuori legge», afferma il biologo Luciano Atzori, dello Studio Abr. Un esempio è la matrina: «Si tratta di un diserbante molto utilizzato in Cina che si estrae da una radice. Per cui si ottiene a basso costo e passa pure come sostanza naturale. Ma i rischi per la salute sono enormi», rivela Atzori. La seconda ragione che obbliga l’Italia a una forte importazione riguarda la regolamentazione. In primis quella europea. «Venuto meno l’annoso problema delle quote latte, il mercato unico si regge ancora su dei limiti di produzione che avvantaggiano alcuni dei nostri partner europei a discapito dell’Italia». Infine, c’è un aspetto agricolo non trascurabile che riguarda la riduzione delle superficie coltivabili: «In Italia, ogni giorno vengono sciupati circa 40 campi di calcio di terreno che potrebbe essere destinato alla coltivazione. Una cifra esorbitante», commenta Bazzana. Tutto per lasciare spazio a infrastrutture viarie, complessi residenziali e centri commerciali che molto spesso sorgono fuori dai centri abitati. Là dove prima era tutta campagna.
Invertire completamente la tendenza non è possibile. Ma gli strumenti per migliorare il saldo fra produzione e importazione non mancano. Come nel caso dei contratti di filiera. «In sostanza sono degli accordi fra produttori e aziende – spiega Bazzana – per cui si coordinano colture agricole e necessità industriali al fine di non sprecare risorse e favorire le produzioni locali. Una soluzione che potrebbe anche migliorare i già alti standard di sicurezza alimentari italiani».
La Stampa – 25 agosto 2017