Riduzione del cuneo fiscale a partire da donne e giovani, rifinanziamento dei contratti del pubblico impiego, riordino delle «spese fiscali» e terza fase della spending review, ma niente riduzione dell’Irpef e revisione in senso progressivo dei bonus alle famiglie.
Accanto ai numeri chiave della finanza pubblica (deficit al 2,1%, crescita all’1,1% e debito al 132.5% nel 2017) e a quelli dell’economia reale (inflazione all’1,2% quest’anno e all’1,7% nel 2018; disoccupazione in discesa dello 0,2% nel 2017, all’11,5, per arrivare all’11,1% nel 2018), il Def diffuso ieri dal ministero dell’Economia insieme al Programma nazionale di riforma (Pnr) inizia anche ad apparecchiare il menu di massima della manovra d’autunno, senza chiudere la porta al «completamento della riforma del Catasto» nonostante le polemiche della vigilia. L’attuazione delle riforme rimane del resto uno snodo centrale per il governo, che calcola in 2,9 i punti di Pil in più realizzabili per questa via nei prossimi cinque anni.
In base alle proiezioni elaborabili proprio grazie alle cifre del Def, la prossima legge di Bilancio dovrebbe avere un impatto minimo sui conti intorno ai 17 miliardi, a patto però che Bruxelles conceda ancora una volta un po’ di deficit in più del previsto, permettendoci di spostare l’obiettivo 2018 a quota 1,8 per cento. La coperta però rimane corta perché non può essere rimandato ancora l’appuntamento con il pareggio sostanziale di bilancio nel 2019, e soprattutto per le dimensioni del nostro debito. Secondo il Def l’Italia non rispetterebbe nel 2020 la regola del debito in base alle dinamiche previste ora (criterio forward-looking), e la spesa per interessi rimane una variabile chiave.
Il conto della manovra deve partire dai numeri messi nero su bianco dal Def, che nel quadro programmatico attesta un deficit 2017 all’2,1%, grazie all’effetto correttivo della manovrina approvata martedì, e un obiettivo per il 2018 all’1,2%, concordato con la commissione Ue. La correzione da mettere in campo per rispettarlo, quindi, sarebbe di 9 decimi di Pil, vale a dire circa 15 miliardi. Attenzione, però, perché il conto effettivo sale a 16,7 miliardi, dovendo considerare anche un ulteriore decimale di Pil ancora da coprire per la differenza fra il deficit tendenziale (1,3% pur tenendo conto degli aumenti Iva previsti dalle clausole di salvaguardia) e l’obiettivo programmatico dell’1,2%. Per arrivare a questo risultato, la legislazione vigente prevede l’aumento dell’Iva indicato dalle «clausole di salvaguardia», e anche per questa ragione il Def disegna una pressione fiscale al rialzo dal 42,3% di quest’anno (-0,6% rispetto al 2016) al 42,8% del prossimo. Lo stesso Def, però, spiega a chiare lettere che il governo ha intenzione di bloccare ancora una volta gli aumenti, quindi servirebbero misure alternative: lo sforzo effettivo sarebbe da 14,6 miliardi, perché 5,1 miliardi sarebbero già scontati con l’effetto strutturale sui prossimi anni prodotto dalla manovrina appena approvata.
Il conto però non si ferma qui. Sempre il Def ufficializza l’obiettivo di intervenire con la manovra per ridurre il cuneo fiscale, con un rafforzamento delle «misure strutturali di decontribuzione del costo del lavoro». Il riferimento è alle ipotesi di decontribuzione triennale per i neoassunti under 35, che secondo le prime stime chiederebbe almeno un miliardo. In agenda ci sono poi i contratti del pubblico impiego, che dovrebbero assorbire circa 1,5 miliardi per arrivare agli 85 euro medi di aumento previsti dall’intesa con i sindacati.
Riassumiamo: considerando anche le «spese indifferibili» (per esempio i trasferimenti ad Anas, Ferrovie e così via) che ogni anno viaggiano intorno ai 2 miliardi, il conto fin qui arriverebbe a 21 miliardi. Ma a facilitare l’impresa potrebbe intervenire un’altra tranche di “flessibilità”, cioè di deficit aggiuntivo rispetto alle previsioni. L’ipotesi di spuntare a Bruxelles il via libera a un obiettivo dell’1,8%, che non dispiacerebbe a Via XX Settembre, permetterebbe infatti di costruire un impianto molto più gestibile, soprattutto alla vigilia delle elezioni politiche. Non sarebbe certo un inedito, del resto, perché come “rivendica” una tabella contenuta nel Def l’Italia ha ottenuto negli ultimi tre anni una flessibilità da 20 miliardi di euro. «Il Patto di stabilità non deve essere una camicia di forza», ha rilanciato ieri il premier Paolo Gentiloni rivendicando anche di aver varato la correzione richiesta dalla Ue «senza una stangata di nuove tasse e senza aumento dei prezzi». I sei decimi di Pil in più in gioco ora valgono altri 10 miliardi, e consentirebbero da soli di coprire una fetta importante dello stop alle clausole Iva: grazie a questo passaggio e agli effetti strutturali della manovrina, il “costo” dei mancati aumenti di aliquota si fermerebbe intorno ai 7-8 miliardi, la correzione da effettuare sarebbe limitata a 5 miliardi (0,3% del Pil, dal deficit al 2,1% di quest’anno all’1,8% del prossimo), con decontribuzione e statali si arriverebbe a 14 e con le spese indifferibili si arriverebbe a 17.
L’accordo con la Ue è ancora tutto da costruire, ma l’architettura politica della manovra è già delineata dal Def con una “fase 3” della spending review, nella versione disegnata dalla riforma del bilancio pubblico che al suo debutto chiederà almeno un miliardo ai ministeri, e un riordino delle tax expenditures. Nel Pnr trova spazio anche un capitolo-banche, all’interno del quale si prevede di spendere solo 10 dei 20 miliardi messi a disposizione dall’indebitamento aggiuntivo previsto nel decreto di Natale. Il tutto, naturalmente, senza dimenticare il nodo del debito pubblico: per percorrere davvero la parabola scritta nel Def, infatti, occorreranno misure come «privatizzazioni, dismissioni immobiliari, razionalizzazione delle partecipate ed entrate da concessioni pubbliche».
Il Sole 24 Ore – 13 aprile 2017