Luca Foltran. I materiali polimerici, più comunemente conosciuti come plastiche, grazie alle loro proprietà funzionali e al basso costo sono utilizzate in ogni campo. Il loro impiego è aumentato di venti volte negli ultimi 50 anni e si prevede il raddoppio nei prossimi 20. Uno studio durato tre anni firmato dalla Ellen MacArthur Foundation, evidenzia i molti vantaggi della plastica ma anche le problematiche correlate ad un corretto smaltimento, all’efficacia del processo di riciclaggio e al valore attribuibile alle plastiche riciclate. Dopo il primo utilizzo, si stima che il 32% della plastica sfugga ai sistemi di raccolta creando enormi danni all’ambiente e intasando le infrastrutture urbane e solo il 14% sia raccolta per il riciclaggio.
Se non bastassero questi già preoccupanti numeri, anche le proiezioni per il futuro sono scoraggianti. Si stima che nel 2050 saremo in un vero e proprio mare di plastica: attualmente negli oceani finiscono 8 milioni di tonnellate di plastica all’anno, pari a un camion al minuto e tra 15 anni questa quantità raddoppierà. Secondo i calcoli tra 40 anni nei mari ci sarà (in peso) più plastica che pesci. C’è di più; per quella data il 20% dell’intera produzione mondiale di petrolio servirà per produrre plastica.
Gli imballaggi rappresentano il settore di impiego prevalente per il materiale plastico (26% del totale) e anche in questo caso la percentuale destinata al riciclo (14%) risulta molto più bassa dei tassi di riciclaggio relativi a carta (58%) e metallo (tra il 70 e il 90%). Inoltre la plastica riciclata perde sensibilmente il suo valore iniziale ed è impiegata in applicazione di valore scarso, a loro volta non più riciclabili dopo l’uso. Ma chi sono i maggiori inquinatori è come si può risolvere il problema?
La questione più urgente riguarda l’inquinamento provocato dagli oggetti monouso, che non vengono riciclati a dovere. L’altro elemento da considerare è che più della metà di tutta la plastica destinata a finire negli oceani, circa il 60%, proviene da cinque nazioni asiatiche: Cina, Filippine, Thailandia, Indonesia e Vietnam.
I rischi per l’ecosistema mondiale (e per l’uomo) sono enormi. Basti pensare ai minuscoli pezzi ingeriti dagli animali marini, in grado di danneggiare il loro sistema endocrino e immunitario con ovvie ripercussioni sulla catena alimentare. Gli scienziati hanno creato un neologismo per descrivere il fenomeno: plastisfera. Si tratta di un mondo a sè in cui i detriti di plastica fungono da vere e proprie zattere dove i microbi possono proliferare e spostarsi per lunghe distanze, influenzando in modo nuovo sulla vita degli ecosistemi.
Secondo gli studiosi sarebbero almeno 1000 i microbi che vivono su queste isole di plastica in grado di rappresentare una minaccia per gli organismi più grandi come la trasmissione di patologie che senza i detriti non avrebbero una tale diffusione.
I ricercatori della Whoi – la più grande istituzione oceanografica privata del mondo – hanno scoperto che queste micro-comunità ospitano anche batteri nocivi per gli animali e per l’uomo, che prosperano indisturbati su queste isolette artificiali. Non solo: pare che tra gli oltre mille tipi di microorganismi identificati, esistano «super-colonizzatori» in grado di proliferare enormemente nel giro di pochi minuti. Un ulteriore spunto sulla pericolosità del fenomeno deriva dal fatto che la plastisfera cresce su detriti di dimensioni ridotte, inferiori ai 5 millimetri. Questo tipo di rifiuto, chiamato microplastica, viene frequentemente ingerito dai pesci o da altri animali, e secondo gli ultimi studi il «passaggio digestivo» non danneggerebbe i batteri patogeni ma fornirebbe loro ulteriori nutrienti. In altre parole i microorganismi presenti sulla plastica galleggiante, una volta ingeriti, digeriti ed espulsi, ne uscirebbero “fortificati”.
Continua a leggere sul Fatto alimentare
7 settembre 2016