In proporzione agli studenti, Viterbo ottiene il doppio del Politecnico di Milano. A Venezia e Bologna riduzioni uguali a Napoli e Palermo. Nel 2013 il dibattito sul finanziamento universitario è volato alto, in estate la grande parata delle “pagelle” sui risultati della ricerca misurati in tutti i dipartimenti degli atenei italiani ha rilanciato il tema degli incentivi ai migliori, ma quando si è passati ai soldi veri il meccanismo è atterrato sui soliti tagli: “lineari” o più o meno casuali a seconda delle letture, ma certamente “ritardatari”, perché sono stati comunicati a esercizio finanziario praticamente chiuso.
I fondi di ogni università rimangono così in larga parte appesi ai parametri della spesa storica, che per le più diverse ragioni stratificate negli anni spiegano le differenze enormi nella dotazione fra ateneo e ateneo. La tabella qui a fianco illustra il quadro, e mostra che in rapporto agli iscritti (pesati con i criteri ministeriali a seconda dell’area di studio, perché per esempio uno studente di medicina costa più di uno di giurisprudenza) l’università più “ricca”, la Tuscia di Viterbo, riceve quasi 6.500 euro a iscritto, 2,5 volte tanto l’assegno che arriva a Chieti, alla Iuav di Venezia o al Politecnico di Milano. Le tabelle allegate ai decreti ministeriali che assegnano le risorse mostrano anche l’assegnazione teorica della quota “premiale”, distribuita in base ai risultati ottenuti da ogni ateneo nella ricerca e nella didattica: Milano Bicocca, che secondo i parametri del ministero si sarebbe meritata i premi più sostanziosi, con 3.793 euro a iscritto è al 41esimo posto su 54 atenei mentre Messina, la meno brillante, conta su 4.989 euro a iscritto e occupa la nona posizione nella graduatoria del finanziamento nazionale pro capite.
Il quadro, insomma, non è esaltante, e diventa decisamente scoraggiante se si pensa che il «finanziamento competitivo» degli atenei è stato deciso ufficialmente dal decreto università del 2008 (ma era in cantiere da prima), rinvigorito dalla riforma Gelmini del 2010 e pubblicamente rilanciato da ogni provvedimento sul tema. Con il risultato che la «Gazzetta Ufficiale» è zeppa di annunci, ma i bilanci degli atenei restano privi di premi reali. Negli anni dell’austerità finanziaria che ha investito anche le università, l’altalena estenuante fra promesse innovative e attuazioni conservatrici è sfociata nell’unico risultato di rendere sempre più complicati i criteri di distribuzione dei fondi. Nemmeno le assegnazioni dei fondi 2013, arrivate dopo un lungo lavorio (si veda Il Sole 24 Ore del 7 gennaio), hanno fatto eccezione.
Il problema è prima di tutto matematico: una clausola di salvaguardia prevede che nessuna università possa perdere più del 5% delle risorse rispetto all’anno prima, la dote complessiva del fondo ordinario è scesa del 4,5% (lasciando fuori dai tagli solo gli atenei di Camerino, L’Aquila e Macerata, titolari di accordi di programma, e le scuole speciali) e ovviamente l’incrocio fra questi due dati ha congelato il sistema, perché qualche premio in più ai “migliori” avrebbe impedito di salvare gli altri. A queste premesse “deboli” si sono poi aggiunti altri fattori: il confronto con il 2012, prima di tutto, deve tener conto anche dei fondi in più che erano stati assegnati agli atenei con maggiori spazi assunzionali per il piano straordinario degli associati, ma che non sono stati spesi perché i tempi dell’abilitazione nazionale non lo hanno permesso.
Ma più dei cervellotici meccanismi di assegnazione dei fondi, sono i numeri dei risultati a spiegare con chiarezza il problema. Milano Bicocca, come si diceva più sopra, avrebbe in teoria ottenuto i premi più importanti per i risultati ottenuti nella didattica e nella ricerca, ma all’atto pratico si è vista comunque tagliare le risorse dell’1,63%, un po’ più rispetto a Foggia o Chieti che si collocano più in basso nella graduatoria del “merito”. A Verona, terza in classifica secondo i risultati ministeriali, la sforbiciata è stata del 2,3%, superiore a quella di Teramo che invece è al 23esimo posto, mentre Venezia e Bologna, rispettivamente quinta e settima in base agli indicatori di qualità, hanno pagato un pegno vicino al 5%, cioè praticamente uguale a quello chiesto a Messina, Palermo e alla Seconda università di Napoli, gli atenei che hanno mostrato i risultati peggiori secondo le rilevazioni del ministero.
Il problema, come si vede, è storico, affonda le proprie radici nel momento stesso della nascita ufficiale del «finanziamento competitivo» e, per cambiare passo, il ministro dell’Università Maria Chiara Carrozza ha avviato i lavori per trovare un nuovo sistema entro pochi mesi. Un lavoro, questo, chiamato a rivedere anche i tempi della macchina amministrativa, come mostra un esempio evidente: il 10 gennaio è stato pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» il decreto sui fondi per la «programmazione», ma il periodo coperto dal provvedimento è iniziato il 1? gennaio 2013: e la «programmazione» ex post è una contraddizione in termini.
Il Sole 24 Ore – 27 gennaio 2014