Roberto Giovannini. Freddo, cielo bianchissimo. Siamo in Lombardia, poco a Sud del grande fiume Po, e l’Emilia è a un tiro di schioppo. In questo lembo di Pianura Padana che costituisce la provincia di Mantova c’è una delle concentrazioni di allevamenti di suini più importanti d’Italia. Ce ne sono tantissimi di maiali qui in giro, chiusi ermeticamente in immensi capannoni di cemento e mattoni che ne contengono a centinaia, talvolta migliaia. Strutture blindate in cui entrare non si può. A Schivenoglia 1000 abitanti condividono il territorio con 8000 «guget», il nome in dialetto dei suini. «Sarebbero potuti diventare 20.000 – racconta la signora Maura Cappi, anche lei titolare di un’azienda agricola, ma soprattutto presidente di un comitato di cittadini – ma per fortuna siamo riusciti a vincere il referendum».
Lo scorso settembre, con 332 No e 288 Sì, i cittadini di Schivenoglia hanno infatti bocciato l’apertura di un altro maxi-allevamento con 11.000 suini da parte della «Biopig» di Nogara, Verona. «Sarebbe stata una bomba ecologica», spiega Maura, che chiarisce come la vicenda sia tutt’altro che chiusa: il referendum era solo consultivo, e il proprietario della «Biopig» ha fatto ricorso al Tar.
Quel che è certo è che, anche se l’allevamento industriale in queste zone è una fonte di ricchezza, sempre più spesso i cittadini, nonostante siano contadini anche loro, protestano. Un po’ perché accanto ai grandi allevamenti di suini c’è molto, molto cattivo odore. Un po’ perché c’è un gran traffico di camion (per le bestie) e di cisterne (per i liquami sparsi nei campi). Un po’ perché le imprese zootecniche hanno scoperto il business della produzione di biometano a partire da letame e scarti, e la gente ha (ingiustificatamente) paura.
A leggere i report e gli studi delle associazioni ambientaliste, l’allevamento intensivo comporta prezzi pesanti per l’ambiente, per gli animali, ma anche per noi umani, direttamente e indirettamente.
Gli animalisti denunciano spesso le allucinanti condizioni di vita delle bestie negli allevamenti industriali intensivi. «Sono maiali che vivono 6 mesi prima di essere abbattuti – spiegano le associazioni animaliste “Essere Animali” e Ciwf -. Vivono stipati nei capannoni, mezzo metro quadro di spazio ciascuno, crescendo fino a 160 chili, i piccoli schiacciati sulle grate dagli adulti, le code tagliate perché non se le divorino». Peggio va ai polli: le galline in gabbia hanno un metro quadrato in 13, lo spazio di una piccola scrivania.
Come spiega Matteo Rebesan, che insieme al cugino Francesco gestisce a Roncoferraro un allevamento brado e semi-brado chiamato «Porc a l’ora» (ovvero «maiale all’ombra»), «un nostro suino dispone di 1000 metri quadri di spazio; uno che invece vive in un allevamento, un impianto a stabulazione fissa, ha per sé solo un metro quadro o uno e mezzo». Si capisce perché i produttori non fanno visitare i grandi allevamenti: non è un bello spettacolo, né una buona pubblicità. «Bisogna essere abituati per poter entrare – dice Rebesan – c’è un odore fortissimo di ammoniaca, per le deiezioni, nonostante areatori e tubi per il lavaggio dei box». Al «Porc a l’ora» gli animali sono liberi. «D’estate come d’inverno sono fuori. Abbiamo delle capannine per quando nevica. A volte ci vanno, a volte no. Il maiale d’inverno ha più grasso, dorme anche sulla neve. Freddo non ne sente». Da mangiare né medicinali, né mangimi con medicinali, ma solo cereali: «Mais, orzo, crusca, e al posto della soia che ormai è solo Ogm, piselli proteici», dice Matteo. Va da sé che questo paradiso del suino non è per la produzione di massa: in tutto qui vengono macellate 60 bestie l’anno. «Ma parliamo di animali “fatti”, come diciamo noi, da 200-250 chili in su».
La larga maggioranza degli allevatori – anche se non vogliono parlare con i cronisti – sono brave persone. Va detto che le regole europee ed italiane sono tra le più rigide, e che i controlli sono relativamente frequenti ed efficaci. «Dal 2011 il consumo di antibiotici in zootecnia si è ridotto del 63% grazie a un nostro protocollo volontario – spiega Lara Sanfrancesco, direttore generale dei produttori avicoli di Unaitalia -. I produttori non usano il farmaco se non è necessario». «Non si può definire l’allevamento intensivo come fosse il male – dice Davide Calderone, direttore di Assica -, il reddito si fa rispettando le norme ambientali e il benessere dell’animale, che è trattato in modo corretto nell’interesse dell’allevatore». Ma davvero per animali, allevatori e consumatori, questo è il migliore dei mondi possibili? Siamo sicuri che non ci siano alternative più sostenibili?
Tomei (Assocarni): “È una battaglia ideologica. Noi rispettiamo la legge”
Matteo Novarini. Sono dati privi di valenza scientifica. È una ricerca ideologica e pressapochista». François Tomei, direttore generale di Assocarni, l’associazione degli industriali e commercianti di carni e bestiame, liquida così il rapporto nel quale Greenpeace denuncia l’inquinamento delle acque provocato dai farmaci, dai mangimi super-nutrienti e da altri prodotti chimici utilizzati negli allevamenti.
Si spieghi meglio.
«C’è innanzitutto un problema di metodo: 29 campionamenti in tutta Europa, di cui solo 3 in Italia, non bastano a trarre conclusioni e ad accusare un intero settore di essere una minaccia per l’ambiente. Inoltre Greenpeace non è un organismo terzo e ha un interesse ideologico. Associazioni di questo tipo hanno bisogno di cause da cavalcare».
Non considera Greenpeace una fonte affidabile?
«Il problema è che il rapporto dà un quadro fuorviante della questione, che contraddice fra l’altro molti studi di enti come Arpa e ministero della Salute. Il ministero, per esempio, nel 2016 registrava un calo dell’8,4% nell’uso di antibiotici sugli animali rispetto all’anno precedente. E le migliaia di controlli sul residuo di farmaci nei bovini danno esito positivo solo nello 0,7% dei casi».
Ritiene che il settore della carne sia particolarmente bersagliato?
«Siamo attaccati da tanti. La moda dell’umanizzazione degli animali porta proseliti. In questo momento è conveniente scagliarsi con qualsiasi pretesto contro i produttori di carne. Non lo fanno solo gli animalisti, ma anche, per esempio, chi vuole distogliere l’attenzione dall’inquinamento delle fonti di energia fossile».
Che cosa prevedono i regolamenti del settore?
«In Europa esiste una politica agricola comunitaria che da quasi 20 anni fissa alcuni vincoli per garantire la sostenibilità degli allevamenti. Chi viola queste norme viene sanzionato: per esempio, perde il diritto di accedere a fondi europei, oppure agli aiuti diretti al settore. Ci sono poi programmi italiani».
Per esempio?
«Il ministero della Salute ha creato il sistema “classyfarm”, con cui valuta tutti gli allevamenti secondo parametri oggettivi, come il benessere degli animali, la loro alimentazione, il consumo di farmaci. Un giudizio negativo comporta maggiori controlli. Nei casi in cui i problemi non vengono risolti, si può arrivare anche alla chiusura dell’allevamento».
La Stampa