L’autonomia dell’imprenditore è sì espressione della libertà di iniziativa economica del privato, ma deve essere esercitata con buona fede. Per questo, un incentivo economico al dipendete puòessere negato, ma ci vuole una motivazione adeguata. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 28311/13.
La motivazione del datore di lavoro – una banca – sulle note di qualifica del dipendente non era idonea a giustificare il diniego dell’incentivo economico ad un dipendente, trattandosi di una motivazione di stile estensibile ad una serie indifferenziata di situazioni analoghe. È per questo che la Corte di appello aveva rigettato il gravame dell’istituto di credito e riconosciuto al dipendente l’attribuzione effettiva dell’incentivo, a titolo di risarcimento del danno, con i conseguenti riflessi economici sul t.f.r. e sui ratei di pensione. A proporre ricorso per cassazione è la banca, la quale ha affermato che «tale incentivo veniva erogato non sulla base delle sole note di qualifica, ma anche alla ulteriore condizione di un giudizio positivo sul ‘potenziale’». La Suprema Corte, dal canto suo, osserva che, da un lato, «al giudice non è dato sindacare nel merito le valutazioni dell’imprenditore sulla capacità, e in genere sul valore professionale, dei dipendenti, poiché esse costituiscono espressione della libertà d’iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost.», ma, dall’altro, tale libertà trova un limite nel criterio della buona fede (art. 1375 c.c.). I giudici di legittimità, infine, hanno precisato che l’incentivo economico è oggetto di un diritto soggettivo perfetto, la cui lesione comporta un risarcimento del danno pari all’intera perdita illegittimamente sopportata (art. 1223 c.c.) e non come nel caso di contestazioni per l’avanzamento di carriera – integrante un interesse legittimo d’incerta quantificazione – che viene coperta con ‘il solo’ risarcimento della perdita di chance.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it – 20 marzo 2014