Ribaltata completamente la prospettiva tracciata con la doppia condanna in primo e in secondo grado. I documenti utilizzati, ossia ‘cartellino marcatempo’ o ‘foglio presenze’, costituiscono strumenti per l’attestazione della persona in merito a un rapporto di lavoro sottoposto a disciplina privatistica. Nessun riferimento alla pubblica amministrazione. ‘Foglio presenze’ alterato. Modificati ad arte l’orario di ingresso e quello relativo all’assenza per la ‘pausa pranzo’. A commetterlo è la dipendente di un ufficio pubblico. Ma nessun addebito è possibile per l’ipotesi di falso ideologico in atto pubblico (Cassazione, sentenza 19299/12). Eppure, per i giudici, sia in primo che in secondo grado, nessuna contestazione è possibile. Legittima la pronuncia di condanna a nove mesi di reclusione.
Evidente il falso compiuto ‘modificando’ il ‘foglio presenze’. A contestare questa tesi è la dipendente, che, tramite il proprio legale, presenta ricorso in Cassazione, negando l’attribuzione dell’accusa di «falsità materiale», e richiamando il valore da attribuire al ‘cartellino segnatempo’. Che «non può essere considerato un documento rappresentativo di un unitario atto di attestazione delle ore di effettiva presenza del pubblico funzionario dell’ufficio». Di conseguenza, la «mancata timbratura del cartellino», in occasione di un «temporaneo allontanamento del funzionario», non può dar luogo alla «reticente formazione di un atto pubblico» e a una «falsa rappresentazione della realtà», ma più semplicemente è «omissione del compimento dell’atto». Per dirimere la questione, però, i giudici della Cassazione, richiamandosi a un precedente ad hoc, sottolineano che, in caso di «falsa attestazione del pubblico dipendente» in materia di «presenza in ufficio» attraverso l’impiego di «‘cartellini marcatempo’ o ‘fogli presenze’», non si può assolutamente parlare di «falso ideologico in atto pubblico». Piuttosto, chiariscono i giudici, si può parlare di «mera attestazione del dipendente, inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica», e i documenti, a cui si fa riferimento, «non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione». Di conseguenza, la doppia pronuncia di condanna è da azzerare: «il fatto non sussiste» e la dipendente è ‘salva’.
La Stampa – 11 agosto 2012