Il termine “mobbing” è uno dei più usati (e abusati) non solo nei dibattiti sulle relazioni personali in azienda, ma anche nelle controversie giudiziarie di lavoro.
È sempre più difficile trovare un ricorso al giudice del lavoro dove la parola mobbing non sia pronunciata e uno specifico danno non sia richiesto. Eppure il numero di sentenze che accertano una situazione di mobbing è molto limitato. L’apparente contraddizione si spiega anzitutto con l’inesistenza di una specifica definizione legislativa.
Il termine descrive un fenomeno individuato e studiato dalla sociologia e dalla psicologia, non riconducibile però a una specifica categoria giuridica. Generalmente per mobbing si intende un insieme di sistematici e reiterati comportamenti ostili e persecutori tenuti nei confronti del lavoratore, da parte dei colleghi (mobbing orizzontale), di un superiore gerarchico (mobbing verticale), o dello stesso datore di lavoro (è il caso del cosiddetto “bossing”). Ad oggi, l’unica possibilità di attribuire rilevanza giuridica a simili condotte è quella di ricondurle, chiunque ne sia l’autore, a una violazione degli obblighi di sicurezza e di protezione dei dipendenti previsti dall’articolo 2087 Codice civile.
È questa, infatti, la norma che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, garantendo l’assenza di situazioni nocive per il benessere psico-fisico e la dignità personale. La violazione di questi doveri costituisce inadempimento contrattuale e può portare a un risarcimento dei danni che ne siano derivati. Ma la prova dei fatti che potrebbero costituire violazione della norma incombe sul lavoratore e non è agevole. Non basta infatti lamentare tensioni nell’ambiente di lavoro o rimproveri da parte dei capi.
Una delle ultime sentenze della Cassazione sul punto (n. 12048 del 31 maggio 2011) ha ribadito quali elementi devono sussistere perché possa essere ravvisata una condotta lesiva del datore:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso causale tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Il primo elemento costitutivo è dunque quello della ripetitività, intensità, frequenza e durata nel tempo di azioni volte a procurare un danno al lavoratore, che non è certo semplice da dimostrare. Senza contare che, anche una volta accertata la violazione della norma, il risarcimento del danno non è automatico: bisognerà dare la prova di aver effettivamente subito un danno, patrimoniale o no. Il dibattito sul mobbing ha, in questi anni, coinvolto anche l’Inail. Si è infatti discusso sull’indennizzabilità da parte dell’istituto assicuratore della malattia causata da mobbing. Con una circolare del 2003 (annullata però dal Tar Lazio, sentenza n. 5454 del 4 luglio 2005), l’Inail aveva ricompreso il mobbing (ribattezzato «costrittività organizzativa») tra i fattori di rischio specifici per l’insorgenza di malattie professionali. È oggi però pacifico che le malattie derivanti da mobbing non rientrano tra quelle «tabellate», per le quali l’origine lavorativa è presunta, salvo prova contraria. Pertanto, senza la prova rigorosa del rapporto di causalità tra la malattia e le condotte di mobbing sul lavoro, non ci può essere riconoscimento di malattia professionale e il lavoratore non ha diritto ad alcun indennizzo
Ilsole24ore.com – 6 dicembre 2011