di Paolo Virtuani. La grotta della miniera di Naica, in Messico, è il posto più infernale che esista sul pianeta Terra. E anche tra i più affascinanti. All’interno ci sono cristalli di gesso giganteschi, alcuni lunghi fino a 14 metri, grandi come colonne. Venne scoperta nel 2002 quando crollò una parete e i minatori poterono entrare. Ma solo per pochi minuti.
All’interno la temperatura raggiunge i 50 gradi, l’umidità è al 100 per cento. Significa che la sopravvivenza non supera i cinque minuti per persone in perfetta salute, poi si ha un collasso. Una decina di anni fa un gruppo di ricercatori italiani riuscì a restare nella grotta per venti minuti, scattando fotografie straordinarie, ma solo perché entrarono con speciali tute con un sistema refrigerante e con maschere per respirare ossigeno. In un posto così si pensava che la vita fosse impossibile. E invece…
Isolati da 50 mila anni
Invece nella miniera ora abbandonata di piombo e zinco sono stati trovati batteri che potrebbero essere rimasti isolati dall’esterno da 50 mila anni. Lo ha annunciato il 17 febbraio Penelope Boston, capo dell’Istituto di astrobiologia della Nasa (Nai) nel corso del convegno annuale dell’American Association for the Advancement of Science, anticipando lo studio iniziato nel 2008 che non è stato ancora pubblicato.
Estremofili
Si tratta di una quarantina di ceppi di batteri solforiduttori (che hanno favorito la crescita dei cristalli di gesso, come ipotizzato già dodici anni fa dagli scienziati italiani), di batteri che ossidano il ferro e altri che sopravvivono ossidando il manganese. Tutti però hanno una caratteristica: sono estremofili, cioè in grado di vivere in ambienti estremi come quelli che si trovano nella «grotta dell’inferno». Lo studio di questi batteri interessa molto la Nasa perché potrebbero essere simili a eventuali forme di vita presenti in alcuni satelliti di Giove e di Saturno. La cosa più straordinaria, racconta la dottoressa Boston, è che analizzando il Dna dei batteri rinvenuti nella grotta di Naica si è scoperto che il loro patrimonio genetico è diverso di almeno il 10% rispetto ai loro più prossimi consimili in superficie. Sembra poco, ma una differenza del 10% del Dna è pari a quella che c’è tra gli esseri umani e i funghi.
Corriere.it – 20 febbraio 2017