Repubblica, di Riccardo Luna. L’uomo degli scenari “troppo drammatici per poter essere divulgati”; il “matematico intelligente” che aveva realizzato la prima proiezione italiana dei dati cinesi sul Covid-19 “che avrebbe gettato il paese nel panico”; quell’uomo è Stefano Merler. Ha 51 anni, da 25 è un ricercatore della Fondazione Bruno Kessler di Trento dove si occupa di matematica applicata alle epidemie. In pratica cerca di capire cosa farà un virus. Il 12 febbraio venne ascoltato dal Cts riunito al ministero della Salute alla presenza del ministro Speranza.
Quel giorno presentò uno studio intitolato “Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul sistema sanitario nazionale”. Nel testo di quel documento non c’è molto, ma nei grafici si vede benissimo che il Covid-19 avrebbe potuto contagiare due milioni di persone provocando 70 mila morti.
In quei giorni non lo diceva nessuno, come faceva a saperlo?
«Non lo sapevamo, erano scenari. Le certezze erano altre. La prima era che il virus sarebbe sicuramente arrivato in Italia. Uno studio a cui partecipavo da gennaio dimostrava che l’epidemia in Cina era molto più diffusa di quel che dicevano e che era già uscita dai loro confini. Era tardi per bloccare i voli».
Infatti il 27 gennaio in una intervista lei dice che il coronavirus «sarà una cosa seria, anzi serissima».
«Bastava leggere i lavori scientifici che arrivavano dalla Cina per capire. Uno studio di inizio febbraio diceva che il 25 per cento di chi andava in ospedale aveva bisogno di terapia intensiva e molti addirittura di ventilazione meccanica. Dati spaventosi».
Il 5 febbraio l’Istituto Superiore di Sanità la invita ad un seminario sul coronavirus: li avvisa del pericolo?
«Penso che lo conoscessero già. Quel giorno in realtà presentai lo studio di un collega, Marco Ajelli, che in collaborazione con l’università di Shanghai, per la prima volta dimostrava che gran parte della trasmissione dei contagi era pre-sintomatica. È stato il momento peggiore, quando abbiamo capito la gravità della minaccia».
Può spiegare meglio?
«I virus sono contenibili solo se si verificano due condizioni: una bassa contagiosità, il famoso R0 più basso di 1; e una bassa frazione di trasmissione non vista, quella asintomatica o pre-sintomatica.
Insomma, lo scenario era devastante. Lo presentai e tutti erano spaventati. L’unica cosa che non sapevamo era quando il virus sarebbe arrivato in Italia».
E quindi venne invitato sette giorni dopo a presentare il famoso studio sugli scenari italiani al Cts.
Che in realtà non era poi così allarmistico rispetto a come è andata: perché decise di esaminare scenari con un R0 molto più basso di quello registrato in Cina, dove aveva raggiunto 3?
«Inizialmente pensavamo ad una epidemia lentissima ma già nei documenti successivi (la bozza di piano pandemico del 22 febbraio, ndr ) R0 era stato portato a 2.
Comunque in tutti gli scenari per il sistema sanitario sarebbe stato un disastro e il lockdown inevitabile».
Nel suo studio il virus impiega oltre 200 giorni per arrivare al caso numero mille. In realtà sono bastate meno di due settimane.
Perché?
«Speravamo che il virus non fosse già in Italia. Nelle stime conclusive (la versione finale del piano pandemico del 4 marzo, ndr ), quel numero diventa 38 giorni. Un valore che conferma che i primi casi risalgono a gennaio e che quello che abbiamo chiamato paziente zero era il paziente mille».
Che è accaduto quando abbiamo registrato il paziente zero?
«Il giorno dopo su indicazione dell’Istituto Superiore di Sanità ho iniziato a collaborare con la regione Lombardia dove abbiamo fatto la prima ricerca sulla diffusione del virus con i dati reali. Lo studio dimostrava che senza lockdown solo in Lombardia avremmo avuto 20 mila morti in un mese».