Quello che una settimana fa è arrivato sul tavolo del Consiglio dei ministri è stato un taglio netto al Codice degli appalti, esattamente un anno dopo la sua approvazione: «Il comma 2 è abrogato», c’era scritto infatti in un documento. E per capire bisogna spiegare: il comma 2 dell’articolo 211 è quello che conferisce all’Anac poteri speciali, ovvero di intervenire su un appalto sospetto in assenza di intervento della magistratura.
Senza il comma 2 l’Anac oggi guidata da Raffaele Cantone verrebbe ridimensionata. La notizia è trapelata ieri pomeriggio e qualche ora dopo da Washington il premier Paolo Gentiloni ha preso le distanze da quel taglio al codice degli appalti: «Verrà posto rimedio in maniera inequivocabile», ha fatto sapere infatti il presidente del Consiglio. E fonti di Palazzo Chigi hanno rimarcato che non c’è alcuna volontà politica di ridimensionare il potere dell’Anac.
Da Roma il presidente del Pd Matteo Orfini ha espresso con chiarezza: «Depotenziare l’Anac è un errore che sicuramente governo e Parlamento correggeranno subito». Le polemiche, tuttavia, sono state tante.
Subito dopo le rassicurazioni del premier è stato lo stesso Cantone a «prendere atto positivamente» di questo, ma subito dopo il senatore dem Stefano Esposito ha voluto commentare l’accaduto prima ancora che scendessero in campo le opposizioni. Il senatore è stato infatti il relatore del provvedimento insieme a Raffaella Mariani: «Quando il ministero delle Infrastrutture ha trasmesso il testo non c’erano i riferimenti alla soppressione del comma 2», garantisce.
E poi commenta: «Deve essere successo qualcosa a Palazzo Chigi. Probabilmente gli uffici legislativi del Governo hanno fatto una valutazione forse male interpretando il Consiglio di Stato che nel 2106 disse che andava riformulato il comma 2».
Duro e senza appello arriva invece il commento in una nota dei deputati 5 Stelle: «Questo colpo di spugna del governo è ancora più sospetto dopo lo scandalo Consip». A questa nota ha fatto eco la dichiarazione di Lugi Di Maio, vicepresidente della Camera: «La vicenda Anac è scandalosa. Del resto chi è responsabile di Parentopoli non può fare norme anticorruzione e, se le fa, poi le toglie».
Anche Matteo Salvini , leader della Lega, non usa mezzi termini: «La lotta alla corruzione per la Lega è una priorità assoluta, evidentemente per il Pd di Renzi e Gentiloni no».
Sconcerto del presidente Anac: è una procedura incostituzionale
Quando ha ricevuto il testo finale della legge dal senatore del Pd Stefano Esposito, relatore in Parlamento sulle modifiche al codice degli appalti, Raffaele Cantone ha trovato la sorpresa e l’ha subito chiamato, per chiedergli spiegazioni. Esposito stava guardando Barcellona-Juventus in tv, e non ne sapeva niente; s’è informato a sua volta, e ha ritelefonato scandalizzato al presidente dell’Anticorruzione: «È vero, hanno tolto la norma che vi consentiva di intervenire senza dirci niente!». La discussione è andata avanti per un po’, Cantone e lo stesso senatore erano increduli e d’accordo nel sostenere che il governo non poteva modificare il testo già sottoposto alle Camere senza ripassare dalle apposite commissioni: «È una procedura incostituzionale; a parte il merito della questione, che è già grave, ancora più grave è il metodo».
Un metodo che ha portato a cambiare le carte sul tavolo di Palazzo Chigi, forse addirittura dopo che il consiglio dei ministri aveva approvato il testo: il potere di intervento sugli appalti sospetti, mediante «raccomandazione vincolante» di sospendere le procedure a chi deve affidare i lavori, è stato cancellato tout court senza curarsi del Parlamento e senza avvisare l’Anac, cioè l’ente direttamente interessato. Di qui l’immediata reazione pubblica del senatore Esposito: «Quel comma va reintrodotto, è uno dei punti qualificanti del codice degli appalti per prevenire possibili casi di corruzione».
Cantone ha preferito agire senza ricorrere a esternazioni, e per tutta la giornata di ieri è stato in contatto con il premier Gentiloni e vari ministri interessati alla questione, da Delrio a Minniti. Nel tentativo di capire che cosa era successo, scoprire il mandante di una manovra ufficialmente senza paternità (che comunque ha tutta l’aria di un altolà al suo ruolo di controllo e prevenzione) e cercare una soluzione. La norma cancellata era in vigore da un anno, ma l’Anac non l’ha mai applicata perché prima voleva darsi regole precise sugli interventi, approvate solo a febbraio. Quindi nessuno poteva lamentarsi di eventuali abusi che non ci sono stati. «Io stesso sono consapevole della serietà di questa prerogativa, perciò voglio un regolamento chiaro», aveva spiegato Cantone a chi gli chiedeva la ragione di tanta cautela.
Contro la norma s’era schierato il Consiglio di Stato, con almeno un paio di pareri che segnalavano la contraddittorietà del termine «raccomandazione vincolante» e il rischio di incostituzionalità di un potere così invasivo assegnato a un organismo di vigilanza. Ma durante la stesura della legge originaria questo orientamento era già stato espresso, senza che nessuno ne avesse tenuto conto; quando è stato ribadito, è diventato improvvisamente il grimaldello per sopprimere la norma. Sopprimere, non modificare come suggeriva il Consiglio di Stato. Di qui i dubbi che, al di là degli aspetti tecnici, ci sia qualche altro interesse dietro il blitz che ha sfilato dalle mani di Cantone una delle possibilità d’intervento più significative prima ancora che potesse esercitarla.
Nelle stanze dell’Anac (come nelle altre sedi istituzionali, dalle sedi del governo al Quirinale) si è cercato di ricostruire l’accaduto, senza successo. E in serata Cantone s’è limitato a prendere atto, con soddisfazione, dell’annunciata intenzione riparatoria di Palazzo Chigi. Certo, gli interessi delle imprese e delle stazioni appaltanti possono confliggere con una norma che attribuisce un controllo tanto invasivo al suo ufficio, e potrebbero aver inciso su una decisione dalle evidenti conseguenze politiche. Anche se adesso si proverà a ridurre tutto a una questione tecnica, e a qualche malinteso.
Il giallo della norma eliminata. C’era prima e dopo il Consiglio dei ministri
La norma c’era. C’era in pre-Consiglio, dove i funzionari dei dicasteri si incontrano per valutare i testi che stanno per andare all’esame dei propri ministri. E c’era anche nella riunione dopo il Consiglio, dove i capi degli uffici legislativi lavorano per armonizzare i provvedimenti appena approvati dal governo con la formula «salvo intese». Resta da capire allora chi e perché abbia modificato il decreto sul Codice degli appalti, ridimensionando i poteri dell’Autorità anticorruzione e scatenando un caso politico che ha investito l’esecutivo, ha provocato la reazione di Cantone e ha offerto il fianco all’ennesima polemica tra i grillini e Renzi.
È vero che da tempo Anci e Ance — cioè comuni e costruttori — premevano perché il governo modificasse certi criteri nelle procedure degli appalti, denunciando il blocco delle opere pubbliche per il timore delle strutture di incorrere in sanzioni. Ed è vero che sulla materia era intervenuto il Consiglio di Stato, puntando l’indice anche sulla norma al centro dello scandalo. Ma quella norma aveva resistito alle obiezioni tecniche e giuridiche fino al Consiglio dei ministri, e pure dopo. Prima di svanire. Prima di generare i soliti sospetti, tra chi — come Palazzo Chigi — derubrica il fatto a una svista, chi — come i Cinquestelle — vede al lavoro una «manina», e chi — come Renzi — scorge il disegno di quei poteri dello Stato che mirano a «smantellare le mie riforme».
Il punto è che nessuna di queste tesi regge fino in fondo. Quella del governo mostra delle crepe. A seguire l’iter legislativo del decreto erano stati Delrio e Boschi, gli unici a intervenire in Consiglio sul tema prima di lasciare a Gentiloni le conclusioni. E il premier si era lamentato dei «pareri» redatti dal Consiglio di Stato, che «appesantiscono burocraticamente le procedure» degli appalti. Un’azione premeditata — che è l’accusa dei grillini — sarebbe stata organizzata in aperta contraddizione con il giudizio espresso dal capo del governo. In più si sarebbe trattato di un’iniziativa troppo plateale per non essere scoperta e denunciata. Cosa che è avvenuta. Ma è un fatto che la norma sia stata sbianchettata.
Ha un senso anche l’indignazione di Renzi, che rivendica la paternità dell’Anac e punta l’indice contro i sabotatori della sua creatura. Ma l’epicentro del caso è il governo, e non ci sono dubbi sulla vicinanza all’ex premier di quanti hanno gestito la fattura del decreto. Perciò non regge nemmeno l’idea di una manovra ai danni del candidato alla segreteria del Pd, sebbene sia stato un suo fedelissimo, il senatore Esposito, a scagliarsi per primo contro l’accaduto: in Consiglio dei ministri infatti è nota la puntigliosità della Boschi, che più di una volta è stata causa di frizioni con i colleghi di governo.
Così il mistero invece di risolversi si infittisce, ma dalle nebbie di questa vicenda emergono le tensioni tra l’area di governo tendenza-Renzi e Cantone, che da mesi chiede una normativa con cui avere un maggiore «potere regolamentare» all’interno dell’Anac e dunque maggiore forza decisionale nella sua struttura. Finora aveva ricevuto solo promesse verbali. Chissà se l’ha ricordato ieri sera a Gentiloni…
Il Corriere della Sera – 21 aprile 2017